
Ha vinto alla fine Olly, il ventitreenne Federico Olivieri, che ci aveva colpito per essere almeno con noi giornalisti il più autentico, nella sua intervista era stato pieno di vita, si era dato con generosità; ci dispiace per Giorgia – che era nella storia della canzone già da tempo, tuttavia, così con Lucio Corsi e Brunori abbiamo nuovi volti di una galleria di ritratti di grandi cantanti.
A conclusione di queste lunghe giornate specialmente in sala stampa, tra addetti ai lavori, alcuni momenti sono stati dedicati ad una conversazione a fianco di canzoni e pagelle, intorno ad una domanda.
Quest’anno, ci siamo chiesti: il festival è un’opera d’arte? Folgorati dalle copertine di Vanity Fair e di Sorrisi Canzoni in presenza in sala stampa o con mail e messaggi, abbiamo coinvolto Giuditta Avellina, giornalista esperta di comunicazione; Mario Binetti, regista teatrale e collaboratore di Bergamo TV e tre studentesse del MEC – Eventi e comunicazione per la cultura dell’Università Cattolica, Isabella Lucchesi, Erika Tedde e Simona Asta.
Vanity Fair ha scelto una copertina diversa dal solito, non il classico “gruppo di famiglia” dei cantanti in gara, ma un palazzo storico con ritratti appesi, un grande lampadario, e il titolo “Sanremo, la galleria della musica”
Questa copertina è un cambio di prospettiva. Se TV Sorrisi e Canzoni rappresenta il lato più familiare e nazionalpopolare del festival, qui invece abbiamo un’idea più concettuale: Sanremo come un’opera d’arte, un evento che si fa storia, un qualcosa di immortale.
Una messa in scena, quella scelta dal magazine, per celebrare il passaggio degli ultimi anni di Sanremo da semplice gara canora a vetrina, dove l’arte in senso ampio – dalla moda alla scenografia – si intreccia alla musica, rendendo il Festival una scintillante “icona culturale”
I cantanti diventano icone, quasi figure museali. Achille Lauro in Dolce & Gabbana: è statico, neoclassico. Poi abbiamo Elodie, scultorea, su piedistallo che richiama la Venere di Milo. Anche la composizione è studiata: Elodie, Gaia e Clara in basso, mentre in alto Achille Lauro, a dare tensione visiva. Insomma, un’estetica più sofisticata rispetto al tradizionale “ritratto di famiglia”.
Quindi, questa narrazione estetica trasforma Sanremo in un’opera d’arte?
Lev Tolstoy in “Che cos’è l’arte” (1987) affermava che un’opera d’arte è “un’azione che ha lo scopo di suscitare una risposta emotiva nel pubblico”. Il Festival di Sanremo è un’opera d’arte, se lo si considera come fusione di espressioni artistiche in cui ogni canzone, esibizione o dettaglio visivo sono pensati per coinvolgere il pubblico in un’esperienza emotivamente unica. L’opera d’arte è espressione che unisce emozioni, tecnica e cultura, capace di evocare riflessioni e sensazioni profonde. Sanremo, attraverso la musica, il teatro e l’immagine, diventa un palcoscenico che fonde diverse forme artistiche, creando un dialogo tra passato e presente. Ogni edizione riflette le trasformazioni sociali, diventando un’opera collettiva che parla alla nostra identità. Il festival è uno scatto che ogni anno lavora sul momento e poi in divenire per un percorso che va l’anno dopo.
Sanremo è un evento che scandisce il tempo della cultura pop italiana. Ogni Sanremo è un frammento di memoria collettiva.
Dal punto di vista teatrale, quali elementi drammaturgici entrano nel festival di quest’anno?
Abbiamo visto una forte struttura teatrale nel Dopo Festival, grazie all’impostazione di Cattelan, ma meno nelle serate principali. Certo, ci sono stati momenti con tentativi di teatralità, ma deboli. Mettere quattro ballerini con un bel cambio luci non significa fare teatro. Mancano quei momenti che erano veri monologhi, anche con una certa retorica, come quando Benigni leggeva la Costituzione o quando Pierfrancesco Favino emozionò tutti con il suo monologo.
Il “Sanremo solo musica, tutti cantano” di Carlo Conti è una scelta limitante?
Conti si è rivelato giusto, misurato, veloce, milanese quasi, è una scelta purista, ma Sanremo non è solo musica. È spettacolo, è cultura, è memoria. È stato un po’ un sacrificio rinunciare a quei momenti più narrativi in favore di una scaletta serrata. Si va più dritti al punto, ma forse si perde un po’ della magia del festival.
Un elemento artistico particolarmente divisivo del festival è stata la performance del Teatro Patologico, la cui semplicità, immediatezza e spontaneità, che non nascondevano, anzi, semmai sottolineavano l’intenso lavoro di tutti i partecipanti, hanno consentito di raggiungere il difficilissimo obiettivo di trattare un tema così delicato come quello della malattia mentale in modo incisivo. Tuttavia se da un lato è emerso il mondo del teatro sociale, il collettivo Al di qua Artist ha pubblicato su Il Manifesto una dura lettera di critica per una rappresentazione paternalistica di una realtà sfaccettata e in discussione.
Elementi di cinema, moda, arte e performance, danza nel festival?
Davanti a un panorama musicale che, ai primi ascolti, sembra piuttosto omogeneo e poco sorprendente, gli abiti indossati da Bianca Balti sono stati una vera e propria celebrazione alla vita. Senza nascondere le cicatrici della modella, gli abiti scelti hanno trasmesso un potente messaggio di resilienza e speranza. Merito anche alle coreografie proposte in queste serate che hanno saputo adattarsi, con elementi tradizionali ma anche innovativi, alle varie performances, coinvolgendo pubblico e cantanti.
Gli artisti indossano Fendi, Ferragamo, Gucci. Lucio Corsi colpisce tutti con un outfit che non è un capo di moda di lusso, ma un vestito cucito da lui e portato in scena con fierezza e originalità. L’unicità di Lucio Corsi colpisce perché non è come tutti gli altri ma porta in scena la rottura dagli schemi sociali e stilistici visti nelle edizioni precedenti. La scelta della regia è di adottare un approccio cinematografico, utilizzando inquadrature ravvicinate e movimenti fluidi della camera per enfatizzare le emozioni degli artisti. Questo ha trasformato ogni esibizione in un’esperienza visiva coinvolgente, simile a una produzione cinematografica.
Sanremo è ancora “un’opera d’arte in evoluzione”?
Assolutamente sì. Ogni anno cambia forma, cambia racconto, ma resta un evento che cristallizza un’epoca. Il segreto è trovare l’equilibrio tra tradizione e innovazione, tra musica e spettacolo, tra Italia e internazionale. Vanity Fair lo ha interpretato come una grande galleria d’arte. Forse è questa la chiave per leggere il festival oggi: una continua esposizione, in cui i cantanti sono opere, e noi spettatori, i visitatori.