C’è una linea sottile, ma terribilmente reale, che unisce la burocrazia all’asfalto. È la linea su cui si muovono, troppo spesso con lentezza, talvolta con indifferenza, le amministrazioni comunali chiamate a garantire la sicurezza stradale. A Roma, questa linea si chiama Cristoforo Colombo. Una delle arterie più importanti della Capitale, ma anche una delle più insanguinate.
Ogni anno, molte vite si spezzano su quel nastro di bitume che corre dalla città al mare. Giovani, lavoratori, madri e padri di famiglia. Persone che non “perdono la vita”, come si legge nelle cronache, ma che la vedono tolta da un sistema di mobilità colpevolmente arretrato, da controlli episodici, da incroci progettati male e da un’amministrazione che troppo a lungo ha confuso la fatalità con la responsabilità.
La morte di Beatrice Bellucci è l’ennesimo campanello d’allarme, ma suona dentro una stanza in cui gli allarmi si accumulano da anni. Solo ora il Campidoglio annuncia un’accelerazione: nuovi autovelox, photored, sopralluoghi tecnici. Tutto giusto, tutto necessario. Ma arriva tardi, come sempre. Perché la sicurezza non è un tema da affrontare sull’onda dell’emozione, né un dossier da riaprire dopo ogni tragedia. È, o dovrebbe essere, una priorità strutturale, pianificata e continua.
Il lassismo amministrativo, che da troppo tempo accompagna la gestione delle strade romane, ha un costo altissimo, si misura in vite umane. Ogni buca non riparata, ogni semaforo mal sincronizzato, ogni limite di velocità non rispettato perché nessuno lo fa rispettare, rappresenta una colpa collettiva. E in una democrazia che si definisce “matura”, la colpa è prima di tutto delle istituzioni.
Quando un’amministrazione comunale ignora per anni le statistiche sugli incidenti, i “black-point” segnalati, le petizioni dei cittadini e i rapporti della Polizia Locale, non è più solo inefficiente. È complice. Complice di un sistema che accetta la morte come variabile di gestione, che considera il sangue sull’asfalto un effetto collaterale del traffico urbano.
Il paradosso è che i rimedi sono noti da tempo: riduzione strutturale delle velocità, controlli automatici costanti, messa in sicurezza degli incroci più pericolosi, campagne di educazione alla guida. Non servono miracoli, serve volontà politica. Ma la volontà si scontra con la paura di impopolari “strette” sulla mobilità privata, con la tendenza ad anteporre il consenso immediato alla sicurezza collettiva.
Roma non è un caso isolato, da Milano a Napoli, da Firenze a Palermo, l’Italia vive lo stesso dramma di una rete stradale urbana dove la velocità è tollerata, e la responsabilità amministrativa è diluita. Ogni volta che un Comune rinvia un intervento o taglia fondi alla manutenzione, firma inconsapevolmente la condanna di qualcuno.
La verità è che la morte sulle strade non è mai solo “un incidente”, è l’esito di una catena di omissioni. E quella catena ha sempre un inizio nei palazzi del potere.
Se il Campidoglio oggi promette di accelerare, ben venga. Ma la vera prova non sarà l’annuncio, l’ennesimo, di nuovi dispositivi elettronici. Sarà la capacità di cambiare metodo, di passare da una politica reattiva a una preventiva, da un’amministrazione che rincorre le tragedie a una che le evita.
Perché finché l’Italia continuerà a piangere i suoi morti sulle strade come se fossero vittime del destino, e non di un’amministrazione distratta, nessuna fotocamera e nessun autovelox potranno davvero salvarci.
Solo quando la politica accetterà che anche l’asfalto è un terreno di responsabilità pubblica, potremo dire di vivere in una città, e in un Paese, degni del nome di civili.
