La guerra, si sa, non si combatte solo sul campo di battaglia. Dietro il fragore delle armi e il rimbombo dei missili, esistono operazioni meno visibili, ma altrettanto brutali. Mentre l’attenzione del mondo resta concentrata sulle linee del fronte in Ucraina, la Russia tesse nell’ombra una rete di sfruttamento che coinvolge migliaia di persone: giovani nordcoreani e donne africane, ingannati e poi utilizzati come pedine sacrificabili in uno scacchiere geopolitico sempre più complesso.
Da tempo, le autorità russe hanno intensificato i rapporti con il regime di Kim Jong-un, siglando accordi che nascondono intenti ben più oscuri di quanto appaia. Nel 2024, i confini tra Russia e Corea del Nord hanno visto un flusso senza precedenti di giovani che dichiarano di entrare nel Paese per motivi di studio. Stando ai dati del Servizio di Frontiera dell’FSB (ex KGB), tra luglio e settembre, ben 3.765 cittadini nordcoreani hanno attraversato le frontiere russe con visti educativi. Ma i conti non tornano. Il Ministero dell’Istruzione russo ha rivelato che solo 130 studenti nordcoreani risultano effettivamente iscritti a programmi di studio nelle università russe.
Ma cosa si cela dietro questo improvviso aumento di giovani nordcoreani in Russia? Il fenomeno, purtroppo, che non è affatto nuovo. Già nel 2019, la BBC Russian Service aveva svelato casi di giovani nordcoreani sfruttati come manodopera a basso costo nei cantieri di Irkutsk, in Siberia, in palese violazione delle sanzioni internazionali contro Pyongyang. Tatjana Tjutyunnik, avvocata specializzata in migrazione, denuncia da tempo una realtà preoccupante: “Molti giovani entrano come studenti, ma vengono spediti direttamente nei cantieri o, peggio ancora, nei campi di addestramento militare. Non hanno scelta: se rifiutano, al loro ritorno rischiano ritorsioni letali”.
Nel 2024, la situazione è drasticamente peggiorata, con l’intensificazione di queste pratiche. “Ci avevano garantito un’istruzione”, confessa uno di loro sotto anonimato, “ma ci hanno mandati a lavorare forzatamente, senza alcuna possibilità di ribellarci. Se ci rimpatriano, ci aspettano torture atroci e persino la pena di morte per tradimento”.
Secondo fonti di intelligence sudcoreane, i visti educativi sembrerebbero mascherare un piano ben più oscuro: il reclutamento forzato di uomini destinati a combattere al fronte in Ucraina. La tragedia più profonda, però, è che questi soldati non hanno scelta: dietro di loro, come ostaggi, restano le loro famiglie, prigioniere in Corea del Nord.
Il presidente Zelenskij ha recentemente rivelato che, secondo i servizi di intelligence ucraini, circa 11.000 soldati nordcoreani sarebbero presenti nella regione russa di Kursk, con oltre 1.000 già impiegati in combattimento. Si tratta di giovani privati del loro futuro, mandati al fronte con equipaggiamenti obsoleti e in condizioni disumane, usati come pedine da un regime che li sfrutta senza scrupoli. “Li vediamo sui campi di battaglia”, riferisce un ufficiale ucraino, “sono come spettri: ragazzi smarriti che non capiscono perché sono lì, gettati al macello senza alcuna speranza di ritorno”.
E così, mentre l’Occidente si mostrava sorpreso dall’arrivo delle truppe nordcoreane in supporto al Cremlino, la Duma di Stato russa, il 24 ottobre 2024, aveva già ratificato un trattato di cooperazione militare con Pyongyang. Leonid Sluckij, presidente del Comitato per gli Affari Internazionali, ha dichiarato che l’accordo è volto a “rafforzare la stabilità regionale”. Tuttavia, al di là delle dichiarazioni ufficiali, sembra evidente che lo scopo reale sia quello di sopperire alla crescente carenza di forze militari russe, sfruttando i contingenti nordcoreani per potenziare l’offensiva militare in Ucraina.
Se i giovani nordcoreani vengono arruolati come forza lavoro o come soldati, un destino altrettanto crudele attende centinaia di giovani donne africane, attirate in Russia con la promessa di opportunità che si rivelano essere trappole senza uscita.
In una fabbrica nel Tatarstan, nel cuore della Russia, oltre 200 donne provenienti da Uganda, Kenya e Nigeria sono state reclutate per lavorare nell’assemblaggio dei droni militari Shahed (una parola araba che significa “testimone” o “martire”), utilizzati negli attacchi contro l’Ucraina. Presentato come un programma di “formazione e lavoro”, l’iniziativa “Alabuga Start” dipinge un quadro idilliaco sui social media, mostrando giovani sorridenti in contesti apparentemente sicuri. Ma la realtà è un’altra.
“Ci avevano detto che era un’opportunità di formazione”, confida in via anonima una delle lavoratrici all’Associated Press, “ma ci siamo trovate a maneggiare sostanze chimiche che ci bruciavano la pelle”.Lavorano per 12 ore al giorno senza protezioni adeguate, spesso senza il minimo accesso a cure mediche. Promesse di salari fino a 700 dollari al mese si sono trasformate in compensi ridotti all’osso, una volta sottratti i costi per voli, alloggi e spese mediche. Molte di loro riescono a malapena a inviare 150 dollari alle famiglie.
“Veniamo trattate come schiave”, racconta un’altra lavoratrice. Le loro vite sono sotto costante sorveglianza: “Non possiamo comunicare liberamente con le nostre famiglie. I nostri messaggi vengono monitorati e i telefoni ci sono sequestrati durante i turni di lavoro”, aggiunge amaramente.
L’analogia tra i giovani nordcoreani e le donne africane è inquietante. I primi, costretti a scegliere tra la sopravvivenza e il rischio di terribili ritorsioni al ritorno in patria, finiscono arruolati in una guerra che non li riguarda. Le seconde, ingannate da false prospettive di lavoro e formazione, restano imprigionate in fabbriche che alimentano il conflitto. Queste storie rivelano uno degli aspetti più oscuri del conflitto russo-ucraino, eppure il mondo continua a distogliere lo sguardo.
Ravina Shamdasani, portavoce dell’ONU, l’ottobre scorso ha dichiarato che “Il reclutamento ingannevole di giovani vulnerabili, che si trovano a lavorare in condizioni disumane, è una violazione dei diritti umani che non può essere tollerata”. Tuttavia, la risposta internazionale è stata finora debole e tardiva. Dietro le dichiarazioni, infatti, pochi passi concreti sono stati compiuti per fermare questi abusi.
Alcuni Paesi africani, come l’Uganda, hanno espresso preoccupazione per il destino delle loro giovani donne, ma la pressione diplomatica non è sufficiente a proteggere chi è già caduto nella trappola. Le ambasciate di vari Stati africani cercano di intervenire, ma spesso si scontrano con la burocrazia russa e la scarsa volontà politica di Mosca.
Anna Gulevič, avvocatessa per i diritti umani, denuncia: “Se rimpatriati, i disertori nordcoreani rischiano torture e persino la morte”. Sorte simile attende le donne africane, intrappolate non solo fisicamente, ma anche finanziariamente, a causa delle sanzioni che impediscono loro di inviare denaro alle famiglie.
Mentre i leader mondiali si occupano di trattati e geopolitica, queste storie continuano a passare inosservate. In un’epoca in cui si esalta la tecnologia militare come simbolo di progresso, ci si dimentica così che dietro ogni drone che solca il cielo di Kiev, dietro ogni soldato inviato su terre lontane, ci sono volti, speranze infrante e destini spezzati. Non è forse compito della comunità internazionale ascoltare e sostenere chi soffre nell’indifferenza? Le storie di queste persone devono essere raccontate, perché solo quando i riflettori illumineranno le ombre, potremo sperare di restituire loro la libertà e la dignità che meritano.