Gli Stati Uniti trascinano Zelenskij alla resa: “La pace si fa a modo nostro”

Fine della pace “giusta”, stop agli aiuti e tregua imposta: il discorso più lungo della storia degli Stati Uniti cambia la guerra in Ucraina. E ora Minsk diventa il cuore del nuovo ordine mondiale

Stati Uniti vs Zelenskij

Washington, 5 marzo 2025 – È durato cento minuti il discorso più lungo nella storia della presidenza americana, pronunciato da un Donald Trump galvanizzato, risorto politicamente, determinato a ridisegnare la mappa della pace e quella del potere mondiale. L’intervento di Trump è iniziato alle 21:18 ora locale (le 03:18 ora italiana) e, come riportato da Reuters, ha superato ogni precedente, battendo persino quello del 2017 che si era fermato a sessanta minuti.

“Il sogno americano è tornato”, ha scandito con la solennità di chi sa che il mondo, questa volta, lo sta ascoltando davvero. Davanti al Congresso, con il vicepresidente J.D. Vance e il presidente della Camera Mike Johnson seduti alle sue spalle come guardiani silenziosi di un nuovo ordine americano, Trump ha gettato sul tavolo la carta che tutti aspettavano: l’Ucraina è pronta a trattare.

A confermare la svolta è stato lui stesso, leggendo ad alta voce il passaggio chiave di quella che ha definito “una lettera importante” ricevuta dal presidente ucraino Vladimir Zelenskij solo ventiquattro ore prima: “Il mio team ed io siamo pronti a lavorare sotto la forte guida del presidente Trump per raggiungere una pace stabile […]. Apprezziamo davvero tutto ciò che l’America ha fatto per aiutare l’Ucraina a preservare sovranità e indipendenza”.

Un’ammissione che segna una frattura nel linguaggio della guerra: la parola “giusta”, obbligatoria per anni in ogni dichiarazione ufficiale, si dissolve a favore di una prospettiva meno assoluta e più utile. Perché ora, dopo mille illusioni, il presidente ucraino si trova costretto a sedersi accanto a Trump, nella speranza che l’America, in questa nuova stagione, garantisca almeno una via d’uscita.

L’aria di tregua che aleggia sopra Kiev non nasce da improvvisi lampi di saggezza diplomatica, ma da un lento sgretolarsi delle certezze euro-atlantiche. Il blocco degli aiuti militari americani è stato il primo avvertimento, la conferma che il tempo degli assegni in bianco è finito. Alla Casa Bianca, Zelenskij aveva già trovato porte socchiuse e sguardi diffidenti. Ma è stato lo scontro diretto con Trump e Vance, venerdì scorso, a chiudere definitivamente il cerchio.

“Abbiamo ricevuto forti segnali che i russi vogliono la pace”, ha dichiarato Trump nel suo intervento, spostando il baricentro della trattativa verso est. E il Cremlino, quasi in tempo reale, ha accolto la mano tesa con calcolo e prudenza: “Positiva la volontà del presidente di riavviare il dialogo”, ha comunicato Mosca, mentre Dmitrij Medvedev, fedele alla sua retorica bellica, ha ribadito l’obiettivo russo di “infliggere al nemico il massimo della sconfitta sul terreno”.

Minsk torna così a candidarsi come capitale della diplomazia impossibile, con Aleksandr Lukašenko pronto ad accogliere Trump, Putin e Zelenskij. E mentre i grandi del mondo iniziano a far scorrere agende e calendari, l’Europa si scopre più fragile che mai. “L’Europa si trova a un punto cruciale della sua storia”, ha ammesso Sophie Primas, portavoce del governo francese, annunciando quella che doveva essere una missione congiunta di Macron, Zelenskij e Starmer a Washington, salvo poi essere smentita poco dopo da fonti ufficiali dell’Eliseo.

Nel frattempo, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen prova a rianimare il sogno di una difesa comune con un piano da 800 miliardi di euro per il riarmo, ma a Kiev ormai nessuno crede più ai lillipuziani eserciti della Lancaster House.

Nell’aula del Congresso, oltre ai politici, sedeva anche Elon Musk. Presenza tutt’altro che decorativa: mentre Trump annunciava “azioni storiche per espandere drasticamente la produzione di minerali critici e terre rare”, era chiaro che il futuro delle potenze non passerà solo attraverso le cancellerie, ma anche dagli uomini che tengono accesi i satelliti e accesi i mercati.

“La guerra commerciale renderà di nuovo ricca l’America”, ha proclamato Trump, confermando i dazi su Cina, India, Canada e Messico dal prossimo 2 aprile. “Qualsiasi cosa ci impongano, noi la imponiamo a loro. Qualsiasi tassa ci mettano, noi la mettiamo a loro”, ha detto senza esitazioni.

E se le ripercussioni economiche scuotono i partner commerciali degli Stati Uniti, c’è chi osserva con interesse le crepe che si aprono. “Alla Russia potrebbe risultare vantaggioso occupare parte della quota di mercato lasciata libera”, ha spiegato Kirill Ščerbakov, docente presso l’Università Finanziaria e Industriale di Mosca, meglio conosciuta come Università Synergy, una delle più grandi università private della Federazione Russa, fondata nel 1995 e con sedi internazionali a Londra, New York, Berlino e Dubai. Con il possibile ridimensionamento delle esportazioni dal Canada e dal Messico, Mosca potrebbe risalire la classifica dei fornitori globali, proprio mentre la Cina cerca nuovi spazi commerciali per aggirare i dazi americani.

In questo scenario liquido e impietoso, Zelenskij ha scelto di cambiare tono. “Siamo pronti a lavorare rapidamente per porre fine al conflitto. Vogliamo un solido accordo finale”, ha scritto su X, lasciando intuire che l’orizzonte del compromesso non è più un tabù.

“Le parole secondo cui ‘i russi danno segnali di pace e di negoziati’ avranno senso solo quando la Russia smetterà di colpire ogni giorno l’Ucraina con missili e droni”, ha precisato Andriy Kovalenko del Consiglio nazionale di difesa e sicurezza ucraino, ma lo ha fatto con il tono stanco di chi sa che la guerra, adesso, si combatte anche sulla durata delle scorte, sul costo del gas e sulla resistenza psicologica di un popolo stremato.

E mentre Odessa resta senza luce e Donetsk conta le macerie, Kiev guarda al futuro prossimo con il realismo di chi sa che non c’è più tempo da perdere. La posta in gioco non è più la vittoria totale, ma la sopravvivenza. Non c’è pace perfetta all’orizzonte, ma forse un equilibrio imperfetto, abbastanza stabile da garantire che il Paese non crolli.

Così, mentre l’Europa resta prigioniera delle sue riunioni e l’America ricalcola i suoi interessi globali, l’Ucraina prova a resistere ancora un giorno, poi un altro, fino a quando qualcuno avrà la forza – e il coraggio – di trasformare questa tregua senza aggettivi in qualcosa che assomigli a un domani.

Perché, nel mondo che Trump racconta e comanda, non si sogna più il meglio. Si cerca solo di evitare il peggio. E oggi, per Kiev, questo è già abbastanza.

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