Abel Ferrara: il demone con l’aureola.

Inserite in uno shaker Scorsese, Bukowski e un pastore evangelico americano, agitate vigorosamente e al termine versate il contenuto in un tumbler. Afferrate il bicchiere e scagliatelo contro la parete del cesso di un bordello. Otterrete così Abel Ferrara, uno dei prodigi inspiegabilmente più sottostimati che la settima arte abbia mai partorito. Classe 51, newyorkese figlio di immigrati italiani e irlandesi. Dopo alcuni cortometraggi tra cui un porno, nel 1979 vede la luce quello che può essere considerato il primo vero film dell’autore dal titolo “The Driller Killer”, uno splatter low-budget. Seguiranno una breve parentesi televisiva e pellicole caratterizzate da una sceneggiatura sempre più strutturata, fino ad arrivare al capolavoro e grande successo di pubblico “King Of New York” (1990) con un memorabile Christopher Walken nei panni di un gangster.

Il film, frutto del sodalizio tra il regista e l’amico sceneggiatore Nicholas St. John, riscuote un grande successo di pubblico e critica, sancendo la consacrazione di Ferrara nell’ambiente cinematografico. Nel periodo che va dai primi Novanta fino alla prima decade del Duemila il regista sforna alcuni dei suoi film più apprezzati, tra cui “Bad Lieutenant”, “Dangerous Game” e “ The Addiction” che insieme compongono la “Trilogia del Peccato”. Infine Ferrara conosce una fase segnata dall’alternanza di documentari d’impegno sociale e film a sfondo religioso compreso l’ultimo “Padre Pio” del 2022 dedicato alla vita del santo.

Mi piace pensare ad Abel Ferrara, prendendo spunto dal nome, proprio come al personaggio della Bibbia ucciso dal fratello per gelosia. Secondo le sacre scritture infatti Caino è stato il primo essere umano a nascere, Abele il primo a morire. Metaforicamente il regista incarna la figura di poeta dei bassifondi che, come un martire dei nostri tempi, sacrifica il proprio corpo come prova di totale onestà nei confronti del pubblico e della sua missione cinematografica. L’autore attinge dalla propria esperienza di vita per dipingere una serie di personaggi tormentati che conducono esistenze al limite scandite da abuso di droga, sesso e violenza. In sostanza, peccatori in cerca di redenzione.

New York fa da cornice ideale, una città dalle tinte noir, che viene rappresentata in tutta la sua decadenza morale. L’abilità di Ferrara sta nel dosare sapientemente tematiche distanti tra loro come la delinquenza e la religione, riuscendo a trovare una sorta di equilibrio irrazionale dai tratti bunueliani che non prevede alcun tipo di censura della realtà. Le immagini crude e spesso volutamente esagerate intrappolano lo spettatore in un girone infernale da cui è impossibile distogliere l’attenzione. Gangster, suore e poliziotti corrotti convivono senza problemi all’interno della medesima narrazione risultando a tutti gli effetti credibili e al contempo incredibili, coerenti e incoerenti.

Ed è proprio su questo fattore di dualità che si regge la cifra stilistica di un regista come Ferrara, sicuramente più vicino all’immagine di un profeta piuttosto che a quella di un tecnico. Outsider e viveur, bad boy e uomo spirituale. Un affascinante ossimoro vivente che non ha paura di rischiare, né di mettersi a nudo e che quanto a integrità avrebbe tanto da insegnare a gran parte dei suoi colleghi.