Il vero quesito del referendum: Governo sì o no?

Il governo invita all’astensione, l’opposizione chiama alla mobilitazione: il voto diventa una sfida politica sul futuro dell’esecutivo

Referendum

Non si vota più per i cinque quesiti referendari. O meglio: si finge che si voti per quelli, ma il Paese, e con esso la sua classe dirigente, ha spostato l’asse del confronto su un altro terreno. Il referendum dell’8 e 9 giugno si è trasformato in un termometro politico, un banco di prova sulla legittimazione popolare del governo in carica. I quesiti, nati per affrontare temi cruciali come il lavoro, la sicurezza e la cittadinanza, sono stati messi in ombra da una nuova e più ingombrante domanda: quanta fiducia ha ancora questo esecutivo?

Il messaggio lanciato dalla maggioranza è tanto chiaro quanto inquietante: non votate. Non nel senso di votare “no” o “sì”, ma proprio di disertare le urne. È un appello all’astensione che rivela una verità politica che la retorica ufficiale cerca di coprire: il vero timore non è il contenuto dei quesiti, ma il raggiungimento del quorum. Perché se il quorum verrà raggiunto, se i cittadini decideranno che questi temi meritano la loro attenzione e la loro partecipazione, allora la narrazione del governo, quella di una maggioranza forte, coesa e popolare, si incrinerà.

In gioco non c’è più solo l’esito dei quesiti, ma la tenuta stessa dell’equilibrio politico su cui poggia l’attuale assetto istituzionale. La paura del governo non è ideologica, è aritmetica. Se si arriva al 50%+1, sarà la prova che il Paese non è anestetizzato, che la partecipazione civile non è morta, che c’è ancora una volontà collettiva capace di opporsi all’inazione e alla propaganda.

L’opposizione, da parte sua, ha colto l’occasione per trasformare questo referendum in una sfida politica diretta. Non tanto, o non solo, per i contenuti dei quesiti, ma per il loro valore simbolico. Andare a votare diventa un atto di dissenso, un modo per bucare il muro dell’indifferenza costruito ad arte da chi governa. È il voto, stavolta, a diventare uno strumento di resistenza.

Non è la prima volta che in Italia il quorum si trasforma da vincolo tecnico in arma politica. Ma raramente il tentativo di svuotare di significato un referendum è stato così spudorato. L’invito all’astensione, l’assenza di dibattito, la rimozione del confronto dai media mainstream: tutto concorre a depotenziare l’unico strumento di democrazia diretta rimasto ai cittadini.

La posta in gioco è altissima. Se il quorum non verrà raggiunto, il governo potrà sbandierare la propria “tenuta” come prova di consenso, anche se costruita sul silenzio. Ma se gli italiani torneranno alle urne, se decideranno di non farsi espropriare anche di questo spazio di decisione, allora si aprirà una crepa profonda nella narrazione trionfante dell’esecutivo.

Il referendum dell’8 e 9 giugno, così come si è configurato oggi, è un test sulla salute della nostra democrazia. Non votare significa accettare che la partecipazione sia un fastidio, un’eccezione, un rischio per l’ordine costituito. Votare, comunque si scelga, è invece un atto di consapevolezza e dignità.

Non c’è neutralità, stavolta. Anche l’astensione è una scelta politica. E come tutte le scelte, avrà un prezzo.