Non è più soltanto un confronto armato sul campo di battaglia: la guerra in Ucraina si è trasformata in un intreccio di dichiarazioni, ultimatum e mediazioni mancate, dove Donald Trump, Vladimir Zelenskij e Vladimir Putin recitano ruoli contrapposti in un dramma che mescola diplomazia, energia e sicurezza globale. Nei giorni che precedono l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, i riflettori si accendono sulle capitali del potere: a Londra Trump detta la linea – “deve andare avanti e fare un accordo” – a Kiev Zelenskij invoca “una posizione chiara” su sanzioni e garanzie, a Nižnij Novgorod Putin si mostra in mimetica mentre supervisiona le esercitazioni militari, e a Berlino prende forma il braccio di ferro con Varsavia sulle riparazioni e sulla deterrenza Nato. In questo mosaico di mosse e contromosse si gioca la possibilità di un accordo per fermare il conflitto, ridefinire il futuro delle sanzioni e ridisegnare gli equilibri della sicurezza europea.
Trump detta la linea a Londra
Il sipario si alza su Londra, dove oggi è sbarcato Donald Trump. Il presidente americano non ha atteso di sedersi a tavoli ufficiali per dettare la sua linea: davanti ai giornalisti ha indicato senza esitazioni la strada che, secondo lui, Kiev deve intraprendere. “Deve andare avanti e fare un accordo”, ha scandito riferendosi a Vladimir Zelenskij e alla necessità di trattare con Vladimir Putin. Parole pronunciate con l’abituale sicurezza, accompagnate da un monito all’Europa: “Deve smettere di comprare petrolio dalla Russia”. Secondo quanto riferito da Adnkronos, Trump intende ribadire lo stesso messaggio direttamente a Zelenskij nel previsto faccia a faccia di New York, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Non una raccomandazione generica, dunque, ma un diktat che riflette la sua visione di leader: pragmatico, diretto, pronto a vendere soluzioni rapide a problemi complessi.
La replica di Kiev: “Ci serve una posizione chiara”
Da Kiev la risposta non si è fatta attendere. In un’intervista a Sky News, ripresa da più testate, Zelenskij ha lanciato un appello che è allo stesso tempo un avvertimento: “L’unico modo per porre fine ai combattimenti è prima di tutto quello di attuare garanzie di sicurezza definite, cosa che è possibile fare solo se Trump è coraggioso”. Il presidente ucraino ha insistito sulla necessità di un impegno vincolante: “Prima di chiudere la guerra, voglio davvero avere tutti gli accordi definiti. Un documento che sia sostenuto dagli Stati Uniti e da tutti i partner europei. Perché questo accada, abbiamo bisogno che Trump assuma una posizione chiara”. Poi, quasi a sfidarlo, ha aggiunto: “Trump è abbastanza forte per prendere decisioni da solo”. Decisioni che dovrebbero includere il blocco delle forniture energetiche russe ai Paesi Nato ancora riluttanti: Turchia, Ungheria e Slovacchia in primis.
Putin in divisa, la forza dell’immagine
Mentre Trump e Zelenskij si scambiavano messaggi a distanza, Vladimir Putin ha scelto un’altra via: quella delle immagini. Vestito in mimetica, il leader del Cremlino si è presentato nella regione di Nižnij Novgorod in occasione delle esercitazioni congiunte con la Bielorussia. Davanti ai suoi generali ha dichiarato che “l’obiettivo è mettere in pratica tutte le misure necessarie per proteggere la sovranità e l’integrità territoriale in caso di aggressione”. Ha poi snocciolato i numeri della mobilitazione: 100mila soldati, 330 aerei, 250 imbarcazioni. “I piani delle esercitazioni si basano sull’esperienza acquisita durante l’operazione militare speciale”, ha aggiunto, riferendosi alla guerra in Ucraina. Una messa in scena di forza, destinata a rimbalzare sui media occidentali come prova che Mosca non arretra, anzi rilancia.
Roma nel mirino: l’avvertimento di Paramonov
Il clima in Italia si è inasprito quando l’ambasciatore russo a Roma, Aleksej Paramonov, nella serata di ieri, ha diffuso su X un lungo post dal tono minaccioso, relativamente alla vicenda dei droni nello spazio aereo polacco, attribuita a Mosca: “La partecipazione dell’Italia a operazioni belliche all’interno di diverse coalizioni antirusse si è sempre conclusa in maniera disastrosa per la sua popolazione”, ha scritto. E ancora: “Non sia mai che anche l’attuale sostegno, diretto o indiretto, da parte dell’Italia a operazioni militari contro la Russia si trasformi in una replica della triste esperienza storica”. Parole che hanno il sapore di un avvertimento, mascherato da richiamo storico.
La mossa polacca: riparazioni in cambio di difesa
Sul fronte europeo, intanto, a Berlino si consumava un’altra partita. Come riferito da Der Spiegel, il nuovo presidente polacco Karol Nawrocki ha avanzato una proposta insolita al presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier: riparazioni di guerra in cambio di un impegno maggiore di Varsavia sul fianco orientale della Nato. Un collegamento giudicato inaccettabile sia da Steinmeier sia dal cancelliere Friedrich Merz. Ma Nawrocki non ha arretrato: “Tutti i paesi che desiderano pace e libertà dovrebbero smettere di sovvenzionare la Federazione Russa”, ha dichiarato, appoggiando la linea di Trump sul petrolio russo.
Gli analisti: “Trump unico possibile mediatore”
Esperti russi e ucraini concordano su un punto: senza un mediatore, Zelenskij e Putin non riusciranno mai a sedersi davvero al tavolo. A Kiev, Vladimir Fesenko, direttore di Penta, centro di ricerche politiche applicate, ha osservato: “Zelenskij e Putin difficilmente possono comunicare, tanto meno accordarsi, senza un mediatore. E il più influente tra questi è Trump”. Ma lo stesso politologo ha frenato sugli entusiasmi: “Non esistono neppure bozze di accordo o progetti di cessate il fuoco. Siamo ancora lontani dalla pace. Anzi, dopo il ritorno di Putin dalla Cina abbiamo visto un’escalation, dalla guerra aerea contro l’Ucraina all’attacco dimostrativo con droni contro la Polonia”.
Zelenskij: “L’Alaska è stato un errore”
Infine, sempre durante l’intervista a Sky News, rilanciata da Askanews, Zelenskij ha rievocato l’incontro bilaterale tra Trump e Putin in Alaska: “Credo che l’incontro in Alaska sia stato un errore. Ha dato molto a Putin e non ha portato alcun effetto per la pace”. Per il leader ucraino, solo un vertice trilaterale con Stati Uniti, Russia e Ucraina può offrire risultati concreti. “L’unico linguaggio che il Cremlino comprende è la forza”, ha detto, avvertendo che Mosca sta mettendo alla prova la Nato con i suoi sconfinamenti aerei.
La partita delle ombre
Lo scontro di dichiarazioni disegna uno scenario complesso. Trump vuole apparire come il leader in grado di chiudere un conflitto che logora l’Europa e indebolisce la Nato. Zelenskij cerca garanzie che evitino il rischio di un accordo fragile, capace solo di congelare la guerra. Putin, dal canto suo, usa la forza militare come strumento di comunicazione politica, mostrando i muscoli per compensare la debolezza diplomatica. Il punto di equilibrio resta lontano. Un accordo richiede non solo la volontà delle parti, ma soprattutto un quadro di sicurezza internazionale condiviso. Finché Mosca non rinuncerà alla guerra come strumento di pressione, e finché Washington ed Europa non si allineeranno su un fronte comune, la pace resterà un miraggio. Eppure, le parole che si incrociano – dure, calcolate, spesso propagandistiche – raccontano di un terreno che si sta preparando. La guerra è entrata nella fase delle ombre: quella in cui il linguaggio militare e quello diplomatico si sovrappongono, e dove ogni frase, ogni gesto, ogni esercitazione in mimetica può pesare quanto un colpo di artiglieria.
Ricordando la Guerra Fredda
Non è la prima volta che la storia si trova a questo bivio. Negli anni Settanta, nel pieno della Guerra Fredda, Washington e Mosca riuscirono a sedersi a tavoli difficili, dal SALT I agli Accordi di Helsinki, creando meccanismi di contenimento pur senza fiducia reciproca. Anche allora, il linguaggio era quello delle armi, eppure la diplomazia trovò spazio per congelare le tensioni. Allo stesso modo, i negoziati di Camp David del 1978 dimostrarono come un mediatore deciso – in quel caso Jimmy Carter – potesse trascinare al tavolo leader ostili come Sadat e Begin. Trump sembra voler calarsi in quel ruolo, ma il contesto odierno è ben più instabile: la Russia non è l’Egitto, l’Ucraina non è Israele e l’Europa è un’alleanza logorata da divisioni interne. Se la logica storica ha un insegnamento, è che i conflitti finiscono non quando un leader proclama la pace, ma quando il costo della guerra diventa insostenibile per tutte le parti. L’Ucraina e la Russia non sono ancora a quel punto. Gli Stati Uniti e l’Europa, divisi sull’energia e sulle sanzioni, non hanno ancora la forza di imporre una linea unica. La storia insegna che la pace si costruisce nei corridoi della diplomazia, ma si firma solo quando le armi hanno già esaurito la loro voce. Oggi, quella voce parla ancora troppo forte.
