Donald Trump aveva promesso di essere il presidente che avrebbe “chiuso le guerre”, l’uomo forte capace di imporre la pace con la forza della deterrenza e dell’affare. Oggi, a quasi un anno dal suo ritorno alla Casa Bianca, il quadro che emerge è l’opposto, un presidente che riporta in primo piano un linguaggio di conquista, di intimidazione e di espansione territoriale, declinato in chiave apertamente neo-imperiale.
Venezuela e Groenlandia: due fronti della stessa visione
Il Venezuela e la Groenlandia, apparentemente lontanissimi, sono in realtà due facce della stessa visione strategica. In entrambi i casi Trump non parla da capo di Stato di una democrazia alleata del diritto internazionale, ma da potenza che rivendica ciò che ritiene “necessario” ai propri interessi. Petrolio da una parte, terre rare e posizione strategica dall’altra. La logica è brutale nella sua semplicità, ciò che serve agli Stati Uniti deve essere preso, con le buone o con le cattive.
Il Venezuela come obiettivo militare ed energetico
Sul Venezuela il linguaggio è quello della minaccia militare diretta. Flotte navali, blocchi in mare aperto, bombardamenti “preventivi” contro il narcotraffico, che diventano facilmente atti di guerra contro uno Stato sovrano. Maduro viene descritto come un ostacolo, non come un interlocutore. Il petrolio venezuelano, intercettato e trattenuto, viene trattato come bottino legittimo. La retorica antidroga serve da cornice morale, ma il messaggio è chiaro, Washington decide chi governa e chi commercia nell’emisfero occidentale.
La Groenlandia e la normalizzazione dell’annessione
La Groenlandia rappresenta una variante più sofisticata, ma non meno inquietante, dello stesso approccio. Qui Trump non agita subito le armi, ma mina la sovranità danese e l’autonomia groenlandese con strumenti politici e simbolici. La nomina di un inviato speciale per la Groenlandia, senza consenso di Copenaghen, è un atto che presuppone una separazione artificiale tra l’isola e il Regno di Danimarca. È un modo per dire: “vi consideriamo già un oggetto negoziabile”.
La sicurezza come pretesto geopolitico
Quando Trump afferma “abbiamo bisogno della Groenlandia per la sicurezza nazionale”, non sta facendo un’analisi geopolitica, sta avanzando una pretesa. La sicurezza nazionale diventa la formula magica che giustifica qualsiasi ambizione, persino l’annessione di un territorio appartenente a un alleato NATO. Le terre rare, le rotte artiche, le basi militari sono l’equivalente polare del petrolio venezuelano, risorse strategiche che trasformano un territorio in preda.
Un mondo diviso in zone d’influenza
In entrambi i casi emerge la stessa idea di mondo, non un sistema di Stati sovrani regolato da norme, ma una mappa di zone d’influenza da espandere. Trump non media, non costruisce alleanze, non rafforza istituzioni. Avanza. Minaccia. Pretende. È la logica della forza elevata a principio ordinatore delle relazioni internazionali.
L’Ucraina e la legittimazione della conquista
Questa impostazione spiega anche il suo atteggiamento verso l’Ucraina. Per Trump, l’invasione russa non è una violazione intollerabile del diritto internazionale, ma un fatto compiuto da “razionalizzare”. I territori occupati da Mosca diventano merce di scambio, il prezzo da pagare in nome di un presunto realismo geopolitico. In altre parole, se la Russia è abbastanza forte da prendersi una parte dell’Ucraina, allora è “naturale” che se la tenga. È lo stesso schema mentale che Trump applica al Venezuela e alla Groenlandia, chi ha potenza decide, chi è più debole subisce.
L’ombra trumpiana sull’Europa e sull’Italia
C’è però un elemento che rende questo scenario ancora più preoccupante per l’Europa, e per l’Italia in particolare. All’interno del governo italiano e, più in generale, nel centrodestra, non mancano esponenti che guardano a Trump con ammirazione, che rivendicano una comune “famiglia politica”, che vedono in questo modello un esempio di sovranismo vincente. È un dato che dovrebbe allarmare. Perché sostenere o giustificare la linea trumpiana significa accettare implicitamente un mondo in cui la forza prevale sul diritto e in cui anche gli alleati possono diventare obiettivi.
La maschera che cade
È qui che cade definitivamente la maschera del “pacificatore”. Trump non sta risolvendo le guerre, sta preparando il terreno per nuove crisi, nuove escalation, nuovi conflitti. Lo fa rivestendoli di estetica muscolare, flotte “più belle”, corazzate “classe Trump”, e di slogan patriottici, ma la sostanza resta quella di sempre, la politica di potenza.
Il paradosso finale è evidente. L’uomo che prometteva di porre fine alle guerre sta contribuendo a riaprire una stagione di conflitti, tensioni e destabilizzazione globale. E chi, in Europa, applaude o tace di fronte a questa deriva, rischia di scoprire troppo tardi che l’imperialismo, quando torna di moda, non distingue tra amici e nemici.
