Nella Kiev ferita dai droni e dai blackout, mentre ancora si contano i morti di Ternopil e Kharkiv, una delegazione americana guidata da Dan Driscoll, segretario dello Us Army. si presenta al palazzo presidenziale con una cartella riservata. Dentro c’è la bozza di quello che a Washington chiamano semplicemente “il piano”: un documento di 28 punti, negoziato in segreto tra emissari degli Stati Uniti e della Russia, che dovrebbe mettere fine alla guerra iniziata con l’invasione del febbraio 2022.
Secondo le indiscrezioni raccolte da Axios, NBC News e confermate da altre testate internazionali, il “piano Trump” è molto più di un cessate il fuoco. È un tentativo di ridisegnare l’ordine di sicurezza europeo, fissando nuovi confini, nuovi limiti alle forze armate ucraine, un rientro della Russia nell’economia globale e un ruolo marginale per l’Europa nella trattativa.
Il testo integrale non è stato pubblicato, ma il mosaico che emerge dalle fonti – dalle anticipazioni del Financial Times, alle ricostruzioni di The Guardian, Al Jazeera, agenzie russe e ucraine – disegna una struttura relativamente chiara: quattro blocchi tematici (“pace in Ucraina”, “garanzie di sicurezza”, “sicurezza in Europa”, “rapporti futuri tra Usa e Russia”), per un totale di 28 punti.
Sul piano territoriale, il documento recepisce in larga misura le richieste russe: le forze armate ucraine dovrebbero ritirarsi da tutta la zona delle autoproclamate “repubbliche popolari” di Donetsk e Luhansk, mentre Crimea e Donbas verrebbero di fatto riconosciute come territorio russo da Stati Uniti e altri Paesi occidentali, anche se a Kiev non verrebbe formalmente imposto di firmare un riconoscimento giuridico. È la formula che il Financial Times descrive come “concessioni territoriali significative da parte dell’Ucraina verso Mosca”.
In cambio, la Russia restituirebbe a Kiev una parte delle aree occupate nelle regioni di Kharkiv e – in alcune versioni della bozza – in quella di Zaporizhzhia. In almeno una delle ricostruzioni, citata anche dal Telegraph e da media russi, compare il modello “soldi in cambio di terra”: l’Ucraina manterrebbe la “proprietà” formale sul Donbas, mentre Mosca pagherebbe una sorta di “affitto” per l’uso della regione. L’ammontare di questa “rendita” non è noto e altri media americani non confermano questo dettaglio, segno che la proposta potrebbe essere una delle varianti ancora in discussione.
Sul piano militare, il piano impone a Kiev un ridimensionamento drastico. Secondo le fonti citate da FT e The Guardian, l’esercito ucraino verrebbe ridotto circa della metà o persino “di due volte e mezzo” rispetto alla consistenza attuale, con un divieto esplicito di possedere missili a lungo raggio capaci di colpire in profondità il territorio russo, inclusa Mosca.
Gli Stati Uniti cesserebbero forniture di sistemi ad alta gittata e l’Ucraina dovrebbe rinunciare a chiedere missili da crociera come i Tomahawk, che Zelenskij ha invano tentato di ottenere negli ultimi mesi. Il piano conferma il carattere non nucleare dell’Ucraina e ribadisce l’impegno a non dispiegare armi atomiche sul suo territorio.
Un altro blocco di punti riguarda la presenza straniera: nessuna truppa straniera o forza di peacekeeping della NATO o dell’Unione Europea potrebbe essere dispiegata in Ucraina, né prima né dopo l’accordo. Le basi e i velivoli alleati verrebbero arretrati stabilmente sul territorio degli Stati membri, escludendo qualsiasi modello “Kosovo” con forze occidentali a presidiare il dopoguerra.
In cambio di queste concessioni, Stati Uniti e principali Paesi europei dovrebbero fornire a Kiev garanzie di sicurezza alternative alla piena adesione alla NATO: un impegno politico e militare alla difesa dell’Ucraina in caso di nuove aggressioni, ma più ambiguo dell’Articolo 5 atlantico e ancora tutto da scrivere.
Sul piano interno, il pacchetto recepisce richieste da tempo avanzate da Mosca: la lingua russa otterrebbe uno status ufficiale in Ucraina, la Chiesa ortodossa legata al Patriarcato di Mosca vedrebbe riconosciuto un ruolo protetto e verrebbero bloccati i procedimenti giudiziari contro la cosiddetta “Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Mosca”, accusata in questi anni di collaborazionismo.
Infine, il capitolo russo. Secondo AP News, il piano prevede un’amnistia generalizzata per tutti i crimini di guerra commessi nel conflitto, che andrebbe ben oltre i soli reati imputati a militari russi, e soprattutto la graduale rimozione delle sanzioni occidentali – comprese quelle pronte a scattare contro giganti energetici come Lukoil e Rosneft, che Mosca vede come una linea rossa economica – con l’obiettivo dichiarato di un “pieno ritorno della Russia nell’economia mondiale”.
Secondo fonti russe, il Cremlino si impegnerebbe, ad adottare una legge che proibisca alla Russia di avviare una guerra contro l’Ucraina o la NATO, accompagnata da un generico “impegno” a non attaccare né l’Ucraina né i Paesi europei. Un impegno che, da solo, difficilmente convincerebbe Kiev e Bruxelles.
Pubblicamente, mancano ancora molti dettagli tecnici sugli altri punti: tempi e modalità del ritiro, formule di verifica internazionale, scansione della rimozione delle sanzioni. Ma la struttura politica è già chiara: cessate il fuoco sulla linea del fronte attuale, riconoscimento di fatto delle conquiste russe, smilitarizzazione parziale dell’Ucraina, reintegrazione di Mosca nel sistema economico globale.
Chi ha scritto il piano? La genealogia di questo documento non sta in un qualche tavolo ONU, ma in una serie di colloqui bilaterali e semi-segreti che iniziano nel 2024 e si intensificano nel 2025.
Secondo Axios, la bozza nasce dopo il vertice di Anchorage, in Alaska, dove Donald Trump e Vladimir Putinavrebbero discusso una cornice di “intese” per una sicurezza europea di lungo periodo. A partire da quelle linee guida, il presidente americano ha incaricato il suo inviato speciale Steve Witkoff di lavorare a un testo operativo con il capo del Fondo russo per gli investimenti diretti, Kirill Dmitriev, considerato un fedelissimo di Putin.
Dalla parte americana, oltre a Witkoff, compaiono nomi politicamente molto identificabili: il segretario di Stato Marco Rubio, il vicepresidente JD Vance, il genero di Trump Jared Kushner. Fox News e NBC riportano che la Casa Bianca ha investito personalmente Trump nella revisione finale dei 28 punti, fino a un suo via libera politico.
Dmitriev parla di un piano “molto più ampio di un semplice cessate il fuoco in Ucraina” e lo descrive come una risposta alla domanda: “Come possiamo finalmente garantire una sicurezza a lungo termine in Europa, non solo in Ucraina?”, per poi aggiungere: “Sentiamo che la posizione della Russia è stata davvero ascoltata”.
La tempistica della fuga di notizie non è casuale. Secondo il politologo russo Pavel Dubravskij, citato da media di Mosca, rendere pubblici i contorni del piano serve a mostrare all’Ucraina che Washington è pronta a trattare con la Russia anche “senza il suo consenso”, usando come leva il contesto interno ucraino: “È probabile che Trump abbia deciso che lo scandalo di corruzione esploso attorno a Zelenskij sia il momento ideale per chiudere un accordo”, afferma l’analista.
Siamo dunque alla capitolazione di Kiev o il “piano” è unica via d’uscita? In pubblico, la risposta del presidente Vladimir Zelenskij è misurata. Il suo ufficio “conferma di aver ricevuto la bozza e annuncia che lavorerà sui punti del piano affinché porti a una fine degna della guerra” e che il presidente parlerà con Trump “nelle prossime ore delle opportunità diplomatiche esistenti e dei punti principali necessari per la pace”.
Dietro le formule diplomatiche, però, a Kiev prevale la rabbia. Alcuni funzionari definiscono la proposta “assurda” e “irrealistica”, un’iniziativa che “significa capitolazione, per l’Ucraina, per l’Europa e per l’America”, come denuncia il deputato e comandante Roman Kostenko. Il presidente della Commissione Esteri del Parlamento, Oleksandr Merežko, parla di “un’operazione di influenza in stile sovietico”, pensata per seminare panico e spaccare il fronte degli alleati.
C’è anche la dimensione interna. Il Washington Post sottolinea come Zelenskij arrivi a questo appuntamento indebolito dal più grande scandalo di corruzione dalla sua elezione: l’inchiesta che tocca l’ex socio in affari Timur Mindich e almeno due ministri, con una parte del suo stesso partito che chiede la testa del capo di gabinetto Andrij Yermak. “La combinazione tra scandalo e avanzata russa può lasciare al leader ucraino pochi margini, mentre i funzionari americani aumentano la pressione per un accordo”, scrive il giornale.
È in questo contesto che trapela da Axios un dettaglio significativo: nel colloquio con Driscoll, Zelenskij avrebbe accettato l’idea di firmare il piano “in tempi stretti”, pur ribadendo che intende negoziare i punti più dolorosi. Non un sì, dunque, ma non più un no secco.
Al tempo stesso, il presidente ucraino insiste perché il sostegno occidentale non venga ritirato in nome di una pace qualsiasi. In un passaggio riportato da diversi media, Zelenskij su X ribadisce che l’Ucraina non concederà mai ai terroristi alcun bottino per i loro crimini e che il Paese conta sui partner perché mantengano questa stessa posizione.
A Mosca, il Cremlino sceglie di mantenere basso il profilo. Il portavoce Dmitrij Peskov, incalzato sul presunto piano da 28 punti, risponde che “nulla di nuovo può essere aggiunto a quanto già detto ad Anchorage” e che non ci sono commenti su documenti che “non sono stati formalmente presentati”.
L’assenza di una presa di posizione ufficiale non significa disinteresse. Per diversi osservatori russi, alcune clausole – come la formula ibrida sul Donbas o l’idea di una legge che “proibisca” nuove guerre – sono viste a Mosca come altrettanto problematiche che a Kiev: “La questione territoriale resta giuridicamente confusa, e non è chiaro perché dovremmo accettare condizioni su ciò che la nostra Costituzione già definisce come nostro”, osserva il politologo Rafail Orduchanjan, sottolineando al tempo stesso che l’obiettivo americano sarebbe prima di tutto “dire a Kiev e all’Europa cosa devono e cosa non devono fare” e solo poi sedersi al tavolo delle trattative con Mosca.
Sul piano della propaganda verso l’esterno, invece, il messaggio è opposto: la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zacharova torna ad accostare i piani occidentali alla logica di “annientamento della popolazione ucraina”, evocando i paragoni con i progetti di Hitler contro gli slavi. Nei suoi interventi, rilanciati da TASS, sostiene che l’Occidente avrebbe tradito gli ucraini e che gli stessi cittadini devono “salvare sè stessi e i propri cari in ogni modo possibile”, perché “Zelenskij ha tradito l’Ucraina” così come lo avrebbe fatto il suo predecessore Porošenko. È la narrazione di una Russia “protettore dei popoli slavi” contro un Occidente presentato come genocida, utile più a consolidare il consenso interno che a convincere gli interlocutori internazionali.
Parallelamente, Putin continua a mostrare i progressi militari sul terreno. Nell’ultima visita a un posto di comando della “gruppirovka Zapad”, il presidente rivendica la conquista completa di Kupjansk, l’accerchiamento di numerosi battaglioni ucraini e l’avanzata in Dnipropetrovsk e Zaporizhzhia, dichiarando che “gli obiettivi dell’operazione militare speciale devono essere senza dubbio raggiunti”. È il messaggio di fondo: Mosca tratta, ma da una posizione che vuole apparire di forza.
Ma se Kiev è coinvolta a metà e Mosca gioca di sponda, l’Europa è in buona sostanza tenuta fuori dalla stanza. Il Telegraph parla di un “incubo ricorrente” in cui “Ucraina e il resto d’Europa si trovano di nuovo di fronte alla prospettiva che Trump si unisca a Putin per imporre a Zelenskij un accordo di pace”, avvertendo che, se il piano non verrà profondamente modificato, Londra e il resto del continente dovranno decidere “se accettare una frattura dell’Alleanza Atlantica”.
La ministra degli Esteri estone, nonché Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera, Kaja Kallas, chiarisce la posizione europea: “Noi europei abbiamo sempre sostenuto una pace duratura, sostenibile e giusta e accogliamo ogni sforzo in questa direzione. Ma perché qualsiasi piano funzioni deve avere a bordo l’Ucraina e l’Europa. Ucraini ed europei devono anch’essi essere d’accordo con questi piani”. Aggiunge inoltre che la proposta Dmitriev-Witkoff “non prevede alcuna concessione da parte della Russia” e ricorda che “in questa guerra c’è un aggressore e una vittima”.
Il ministro degli Esteri polacco Radosław Sikorski va al punto: “Accogliamo gli sforzi di pace, ma l’Europa è il principale sostenitore dell’Ucraina ed è la sicurezza europea a essere in gioco. Ci aspettiamo di essere consultati”, sottolinea, facendo eco al malumore di numerose capitali.
Dietro le dichiarazioni, affiora la paura che un compromesso bilaterale Trump-Putin, costruito sopra la testa dell’Ucraina, cristallizzi l’idea che la forza paga, aprendo un precedente pericoloso per i Paesi baltici, la Polonia, persino i Balcani. Un’analisi dell’Economist, citata in un recente paper del think tank europeo IAI, parla esplicitamente di “nightmare of a Trump-Putin deal” che lascia l’Europa scioccata e costretta a interrogarsi sulla propria sicurezza futura. Alla Casa Bianca, invece, la portavoce Karoline (Caroline) Leavitt respinge l’idea che il piano sia “sbilanciato”.
Un alto funzionario, citato da NBC News, insiste sul fatto che il documento mira a fornire “garanzie di sicurezza a entrambe le parti per un pace duratura” e che “contiene ciò che l’Ucraina cerca e di cui ha bisogno”, pur ammettendo che “richiederà compromessi dolorosi ma inevitabili da entrambe le parti”.
Il senatore Lindsey Graham, repubblicano e alleato di Trump, mette però un paletto: “Nessun piano funzionerà se Putin non sarà convinto della serietà del sostegno militare americano all’Ucraina”, ricordando che la credibilità di ogni accordo passa dalla capacità di far pagare a Mosca il prezzo di nuove violazioni.
Intanto, un cambio di squadra a Washington indebolisce ulteriormente la posizione ucraina: Keith Kellogg, considerato il più filo-ucraino tra i rappresentanti speciali americani, annuncia le dimissioni e, secondo The Guardian, è già stato marginalizzato dai colloqui diretti con i russi. A Kiev lo interpretano come un segnale che il baricentro della politica americana si sposta verso un approccio più transazionale, centrato sulla relazione personale tra Trump e Putin e sugli interessi strategici Usa (dalla Cina al Medio Oriente) più che sulla difesa dell’ordine europeo post-1991.
Dietro il linguaggio diplomatico del piano, c’è una dimensione molto concreta: energia, materie prime, tecnologia. La bozza, stando a fonti russe e a Bloomberg, prevede esplicitamente la rimozione delle sanzioni contro grandi compagnie petrolifere come Lukoil e Rosneft, provvedimento che dovrebbe entrare in vigore già il 21 novembre. Evitare quel giro di vite è, secondo alcuni osservatori, una delle motivazioni centrali di Putin nel promuovere il dialogo con Trump.
Sul piano energetico globale, un accordo di questo tipo significherebbe il rientro massiccio del petrolio e del gas russo nei circuiti occidentali, abbassando probabilmente i prezzi nel breve periodo ma restituendo al Cremlino una formidabile leva politica, proprio mentre l’Europa cerca di liberarsi dalla dipendenza da Mosca.
Nel frattempo, la Russia, colpita quasi quotidianamente da droni ucraini contro raffinerie e infrastrutture energetiche, ha appena adottato un pacchetto di leggi che consente di mobilitare fino a due milioni di riservisti per sorvegliare “strutture sensibili”, dalle raffinerie agli snodi elettrici. Come nota The Guardian, la guerra energetica è diventata bidirezionale: l’Ucraina attacca obiettivi in profondità in Russia, aumentando i prezzi mondiali del carburante, mentre il Cremlino rafforza la difesa interna e usa la minaccia di ulteriori tagli o deviazioni di flusso verso Cina e India come strumento di pressione.
Per l’Europa, un alleggerimento delle sanzioni a Mosca si tradurrebbe in una tensione interna tra chi punta sulla sicurezza energetica a breve – tornare al gas russo per abbassare i costi – e chi teme di riaprire una dipendenza strutturale che la guerra aveva finalmente messo in discussione.
C’è poi la partita dei metalli e delle materie prime strategiche per la transizione digitale e verde: palladio, nichel, titanio, fertilizzanti. Un accordo che riporti la Russia nel commercio globale senza affrontare il nodo della responsabilità per la guerra rischia di normalizzare la posizione di un grande fornitore autoritario proprio mentre l’Occidente cerca alternative in Africa, America Latina e regioni come l’Artico e il Mar Rosso.
La guerra in Ucraina ha rimesso al centro anche la questione della deterrenza nucleare europea. Nell’intervista all’Adnkronos, il politologo francese Bruno Tertrais ricorda che esistono due scenari: in uno, gli Stati Uniti rimangono pienamente impegnati, con le loro armi nucleari condivise in Paesi come Italia e Germania; nell’altro, il “contratto di fiducia” con Washington si rompe davvero, e a quel punto Francia e Regno Unito dovrebbero pensare a una forma di deterrenza europea coordinata, come suggerisce la dichiarazione congiunta franco-britannica del luglio 2025.
Un piano di pace bilaterale Trump-Putin, percepito in Europa come imposto e sbilanciato, potrebbe accelerare proprio questo secondo scenario: un’Europa più autonoma nella difesa, spinta dalla paura che gli Stati Uniti siano pronti a sacrificare la sicurezza di Kiev – e domani, forse, quella dei Baltici – per chiudere rapidamente un fronte caldo e concentrarsi sulla Cina.
Tertrais sottolinea che le nuove tecnologie – intelligenza artificiale, calcolo quantistico, droni subacquei – non cancellano la logica della deterrenza ma la complicano: rendono più vulnerabili le comunicazioni, potenzialmente più individuabili i sottomarini, ma non nel giro di pochi anni. “La semplicità può essere una difesa”, osserva, ricordando come spesso sistemi analogici siano meno vulnerabili ai cyber-attacchi.
Il conflitto ucraino è stato un gigantesco laboratorio di innovazione militare: droni low-cost, sistemi di difesa aerea integrati, guerra elettronica, uso massivo di immagini satellitari commerciali. Un congelamento del fronte sulle linee attuali non fermerebbe questa corsa; anzi, rischierebbe di istituzionalizzare una “guerra fredda calda” in cui Russia, Ucraina e NATO continuano a sviluppare arsenali high-tech con la scusa della deterrenza, mentre la linea di contatto resta fragile.
Da questo punto di vista, il piano in 28 punti apre almeno tre scenari principali: nel primo, l’Ucraina – logorata dalla guerra e dall’isolamento – accetta nel complesso la bozza con modifiche marginali. La guerra finisce, le cannonate tacciono, ma il prezzo è altissimo: una mutilazione territoriale di fatto irreversibile, la smilitarizzazione parziale del Paese, il rientro trionfale della Russia nei mercati energetici e finanziari globali. Agli occhi di molti europei, sarebbe la conferma che l’aggressione paga, un incentivo per future “operazioni speciali” altrove. La NATO ne uscirebbe spaccata, tra chi benedice la Pax Trumpiana e chi guarda già oltre, verso una difesa più autonoma.
Nel secondo scenario, Kiev rifiuta di firmare, l’Europa si schiera al suo fianco, e il piano resta lettera morta. La guerra continua, forse con intensità variabile, mentre la Russia cerca di approfittare della fatica occidentale e dei nuovi fronti aperti in Medio Oriente e Asia. L’Ucraina resta dipendente dall’aiuto europeo – visto che quello militare diretto degli Usa è già stato ridimensionato – e il rischio è una “guerra infinita” a bassa intensità, con attacchi regolari alle infrastrutture energetiche, ondate di profughi, instabilità sui mercati di grano, carburanti e metalli.
Nel terzo scenario, il piano Trump-Putin non viene accettato ma diventa il punto di partenza per un negoziato più allargato, in cui entrano in scena l’Unione Europea, la Turchia, forse il Vaticano che già svolge un ruolo di mediazione umanitaria sul tema dei bambini deportati. In questo quadro, Bruxelles e le capitali europee potrebbero trasformare un testo percepito come “capitolazione” in una bozza più equilibrata, che colleghi ogni concessione territoriale a garanzie di sicurezza robuste, alla presenza di osservatori e forze di interposizione, a un percorso chiaro di responsabilità per i crimini di guerra, almeno a livello politico.
È lo scenario più difficile da costruire, ma l’unico che potrebbe salvare insieme tre obiettivi: la sopravvivenza dell’Ucraina come Stato sovrano, la credibilità del diritto internazionale, la sicurezza europea di lungo periodo.
Alla fine, la domanda centrale che il piano in 28 punti di Trump pone non è solo a Kiev, ma all’Europa nel suo complesso. Quanta sovranità è disposta a sacrificare l’Ucraina in cambio della pace? Quanta giustizia è disposta a sacrificare l’Europa in cambio della stabilità dei prezzi dell’energia e della fine dei bombardamenti?
Una “pace” basata sul congelamento delle conquiste militari russe, sull’amnistia generalizzata e sul ritorno rapido di Mosca nei mercati globali sarebbe indubbiamente una pace – meno morti, meno città distrutte. Ma sarebbe anche un precedente pericoloso, un messaggio agli autocrati di mezzo mondo: se sei abbastanza forte e abbastanza resiliente alle sanzioni, alla fine ricevi un posto al tavolo, qualche territorio in più e l’accesso alle borse occidentali.
Per questo, mentre gli emissari americani e russi scrivono e riscrivono i loro 28 capitoli di pace, l’Europa non può limitarsi a commentare da bordo campo. Il futuro ordine di sicurezza, energetico e tecnologico del continente si sta decidendo ora, e passa anche da una scelta di fondo: accettare un compromesso rapido ma fragile, o pretendere una pace che non premi l’aggressione e non trasformi l’Ucraina in una zona grigia permanente fra due imperi.
In mezzo a queste alternative, una cosa sola è certa: il “piano Trump” ha già ottenuto un risultato. Ha costretto Kiev, Mosca e l’Europa a guardarsi allo specchio e a chiedersi quale prezzo sono davvero disposti a pagare, non solo per fermare la guerra, ma per il tipo di pace che verrà dopo.
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