
In un contesto internazionale segnato da crescenti tensioni, massacri e impunità, la decisione del governo francese di oscurare gli stand di cinque aziende belliche israeliane al Salone aeronautico di Le Bourget non è solo un gesto simbolico, ma un atto politico preciso. Non è frequente che un Paese dell’Unione Europea prenda una posizione così netta nei confronti di un alleato tradizionale come Israele, soprattutto su un terreno tanto sensibile come quello della cooperazione militare e industriale. Eppure, Parigi ha deciso di agire: gli stand di Israel Aerospace Industries, Rafael, Uvision, Elbit e Aeronautics sono stati coperti da teloni neri, perché esibivano “armamenti offensivi”, come quelli potenzialmente in uso nella Striscia di Gaza.
Il gesto ha scatenato la reazione stizzita del ministro della Difesa israeliano, che ha parlato di “segregazione” e di una “decisione scandalosa e senza precedenti”. Ma la realtà è un’altra. La Francia ha agito all’interno del perimetro della propria sovranità e nel rispetto di una responsabilità morale e politica che l’Europa troppo spesso ha trascurato: la responsabilità di non legittimare, attraverso l’esposizione o il commercio, tecnologie militari che contribuiscono a gravi violazioni del diritto internazionale.
Non è un mistero che le aziende colpite dal provvedimento siano direttamente coinvolte nella produzione e fornitura di droni, missili, blindati e sistemi d’intelligenza artificiale impiegati nelle operazioni israeliane a Gaza e in Cisgiordania. Non è neppure un segreto che tali operazioni siano state oggetto di pesanti accuse di crimini di guerra e, come riconosciuto dalla Corte Internazionale di Giustizia, esiste un rischio concreto di genocidio nella Striscia di Gaza. A fronte di questo scenario, appellarsi a presunte “considerazioni politiche” o a una concorrenza industriale sleale, come fa il governo israeliano, è una mossa difensiva che ignora volutamente la gravità del contesto.
Il punto non è soltanto la guerra in corso, ma l’assenza di limiti. Quando l’industria bellica di un Paese diventa strumento diretto di una politica di occupazione illegale e di repressione armata, allora non può più pretendere di essere accolta con il tappeto rosso nei saloni internazionali. Le guerre, per quanto “necessarie” le si voglia definire, non possono essere sottratte a un giudizio etico e giuridico. E se Israele rivendica il diritto di difendersi, è altrettanto legittimo che uno Stato europeo, e ancor più una potenza nucleare e membro permanente del Consiglio di Sicurezza come la Francia, eserciti il proprio diritto di dire no.
In questo senso, l’atto del governo francese è anche un richiamo all’Europa intera: l’idea di una politica estera fondata sui valori del diritto internazionale e dei diritti umani non può essere solo retorica da dichiarazioni ufficiali. Deve tradursi in azioni concrete, anche impopolari, anche scomode. E se il prezzo è l’ira di un alleato, che sia.
Perché non è di “segregazione” che si tratta, ma di discernimento. Non tutto ciò che è tecnologicamente avanzato è moralmente accettabile. E non ogni Paese amico può agire senza freni. La prevenzione dei crimini internazionali non è solo compito dei tribunali, come ricordano i “Giuristi per il rispetto del diritto internazionale”, ma responsabilità condivisa di istituzioni, imprese, sindacati e cittadini. E, come oggi insegna Parigi, anche dei governi.