
Domenica a Gaza, un missile israeliano ha strappato la vita a sei bambini mentre raccoglievano acqua in un campo profughi. Erano in fila, probabilmente con contenitori di plastica in mano, presso uno dei pochi punti di distribuzione ancora funzionanti nel campo di Nuseirat. Altri 17 bambini sono rimasti feriti. La carenza di carburante ha paralizzato gli impianti di desalinizzazione; per bere, si va dove si può. E si rischia di morire.
L’esercito israeliano ha ammesso che l’obiettivo era un militante della Jihad islamica, ma che un malfunzionamento ha fatto cadere il missile a “decine di metri dal bersaglio”. Ha poi aggiunto, con la formula consueta, che “si rammarica per qualsiasi danno ai civili non coinvolti”.
È questa, ormai, la grammatica dell’assuefazione: linguaggio militare asettico a fronte di bambini dilaniati. L’eccezione umanitaria è diventata sistematica. Poche ore dopo, un altro attacco ha colpito un mercato a Gaza City, uccidendo 12 persone, tra cui un noto medico, Ahmad Qandil. Di nuovo, nessun commento da parte israeliana.
La guerra a Gaza non è più una campagna militare contro Hamas: è diventata, giorno dopo giorno, una punizione collettiva. Secondo il Ministero della Salute dell’enclave, oltre 58.000 persone sono state uccise da ottobre 2023, più della metà donne e bambini. Anche considerando con prudenza questi numeri, la sproporzione è evidente. A questo punto, è quasi irrilevante distinguere fra combattenti e civili: ciò che conta è che a morire sono esseri umani inermi, privati dell’acqua, della casa, della vita.
Nel pieno di questa spirale, i negoziati per un cessate il fuoco ristagnano. Le condizioni poste da Israele, distruggere Hamas, liberare tutti gli ostaggi, rendere Gaza innocua, sembrano più una dottrina militare che un’apertura politica. E intanto, le bombe cadono.
La retorica della “precisione chirurgica” degli attacchi non regge più. I missili sbagliano obiettivo con una frequenza inquietante. Oppure, peggio, i bersagli scelti sono “doppie presenze”: un presunto militante accanto a una famiglia. La morte, in questi casi, diventa statistica calcolata: si accetta il danno collaterale come costo operativo.
Ma non è normale che dei bambini muoiano mentre raccolgono acqua. Non è normale che una famiglia, fuggita da una casa evacuata, venga uccisa nella nuova abitazione da un altro missile. Non è normale che in un’intera striscia di terra, non esista un solo luogo sicuro.
Il 7 ottobre 2023, Hamas ha compiuto un atto barbaro, uccidendo 1.200 persone e prendendo 251 ostaggi. Israele ha risposto con una forza devastante, ma la risposta si è da tempo trasformata in un castigo indiscriminato. Nessuno Stato ha il diritto di agire nell’impunità morale solo perché ferito. La sicurezza non può essere costruita sul dolore perpetuo altrui. La giustizia non è vendetta, né sterminio selettivo.
Il mondo osserva, commenta, condanna a intermittenza. Ma Gaza continua a bruciare. I bambini continuano a morire. E ogni nuova vittima segna non solo una tragedia umana, ma anche la lenta erosione di ogni pretesa etica nella condotta bellica.
La domanda che resta, l’unica che conta, è questa: per quanti anni ancora ci diremo che è colpa del “malfunzionamento”?