
Londra, 2 marzo 2025. Dopo il bilaterale con Giorgia Meloni a Downing Street, il primo ministro britannico Keir Starmer ha aperto le porte di Lancaster House ai leader e ai rappresentanti dei 16 Paesi euroatlantici, insieme ai vertici di NATO e UE, per un vertice straordinario dedicato all’Ucraina e alla difesa europea. Fra i primi ad arrivare, il presidente francese Emmanuel Macron, che ha proposto un piano per la cessazione delle ostilità nel conflitto russo-ucraino, già condiviso da Zelenskij. L’Italia è rappresentata dalla premier Giorgia Meloni, mentre al fianco di Starmer c’è proprio il presidente ucraino, giunto ieri in anticipo nel Regno Unito dopo l’umiliazione subita alla Casa Bianca.
Presenti al summit anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il presidente del governo spagnolo Pedro Sánchez, il premier svedese Ulf Kristersson, il primo ministro danese Mette Frederiksen, il premier olandese Mark Rutte, il primo ministro polacco Donald Tusk, il premier norvegese Jonas Gahr Støre, il presidente rumeno Klaus Iohannis, la prima ministra finlandese Petteri Orpo, il premier ceco Petr Fiala e i rappresentanti di Turchia, Estonia, Lituania e Lettonia, oltre alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e il presidente ucraino Volodymyr Zelenskij.
Un vertice straordinario, convocato all’indomani del durissimo confronto tra Trump e Zelenskij a Washington, per ribadire il sostegno a Kiev e discutere la possibilità concreta che l’Europa debba presto farsi carico, da sola, della propria sicurezza e di quella ucraina, qualora gli Stati Uniti decidano davvero di voltare le spalle al conflitto.
Il vertice di Londra è più di un semplice incontro diplomatico: è un tentativo disperato di scongiurare il collasso del fronte occidentale. Perché se Washington molla Kiev, l’Europa non perderà solo l’Ucraina. Rischia di perdere sé stessa.
“Se ci dividiamo, diventiamo deboli”, avverte Meloni. “Ma il punto non è solo restare uniti. Il punto è essere pronti. E la verità è che non lo siamo”.
È l’inizio della fine? Il duello Trump-Zelenskij ha acceso i riflettori sullo scenario più temuto: il disimpegno americano. Trump ha accusato Kiev di ingratitudine, minacciato di chiudere i rubinetti degli aiuti militari e lasciato intendere che, d’ora in avanti, proteggere l’Ucraina toccherà agli europei. Zelenskij ha replicato con orgoglio, ma è tornato dall’America con un pugno di mosche.
La portata di questo strappo va oltre l’Ucraina. Se gli USA si defilano, crolla anche la logica che ha retto la sicurezza europea dal 1949: l’idea che dietro ogni confine del Vecchio Continente ci sia la garanzia della superpotenza americana. E oggi, a differenza della Guerra Fredda, la minaccia russa non si limita ai tank: si muove nell’etere, nel cyberspazio, nei portafogli energetici delle capitali europee.
Ora la domanda che nessuno osa pronunciare è semplice e brutale: cosa accadrebbe se davvero Washington smettesse di pagare il conto della sicurezza europea?
Nel 2024 e 2025, l’Ucraina ha ricevuto circa 134 miliardi di euro tra aiuti finanziari, militari e umanitari dall’UE (Analisi Difesa), oltre a 2,5 miliardi di dollari dagli USA nell’ultimo pacchetto Biden. La Germania ha inviato 1,4 miliardi in armamenti avanzati; la Spagna, 1 miliardo; l’Italia ha prorogato il supporto militare fino a fine anno. Eppure, persino sommando gli sforzi, nessun Paese europeo può sostituire da solo la macchina bellica americana, capace di produrre e fornire sistemi di difesa aerea, missili, artiglieria e supporto logistico in tempi record.
Ma non è solo una questione di numeri. È una questione di logistica, intelligence, sorveglianza satellitare e capacità industriale. Senza l’ombrello degli USA, mancherebbero le infrastrutture per coordinare operazioni su larga scala, i rifornimenti strategici, la difesa cibernetica avanzata e le catene di approvvigionamento che solo una potenza globale può garantire.
Senza gli Stati Uniti, Kiev rischierebbe il collasso operativo in pochi mesi. Ma il vero problema è un altro: senza Washington, anche l’Europa perderebbe lo scudo nucleare, la deterrenza strategica, la supremazia tecnologica satellitare: un sillogismo inquietante.
E Putin, nel frattempo, cosa fa? Guarda e sorride, proprio come ritratto nei meme che stanno spopolando sul web? Con Trump sempre più isolazionista, l’Europa diventerebbe la nuova frontiera del rischio. Per Vladimir Putin, sarebbe l’occasione storica: logorare il fianco orientale della NATO, allargare l’influenza su Moldavia, Georgia, Transnistria e, magari, toccare i Paesi baltici, dove già oggi Mosca intensifica la guerra ibrida fatta di cyberattacchi, fake news e sabotaggi alle infrastrutture energetiche.
Mosca sta già affinando la strategia: meno blitz militari e più infiltrazioni digitali, campagne di disinformazione, attacchi agli impianti elettrici e idrici, manomissioni dei sistemi di trasporto e ricatti energetici. E se il fronte cibernetico cadesse, dietro potrebbe non esserci bisogno nemmeno di un’invasione: basterebbe far collassare le economie per piegare i governi.
Secondo il generale Ben Hodges, ex comandante USA in Europa, “un’America disinteressata aprirebbe la strada a un’escalation russa senza precedenti”, riporta HuffPost. E i segnali sono già qui: nel 2024 gli hacker di Mosca hanno violato sistemi energetici in Polonia e Germania, testando la resistenza europea agli attacchi digitali.
Si tratta quindi di una corsa (disperata) alla difesa comune? Proprio da Londra, i leader europei tentano ora di riempire il vuoto con la promessa di una difesa comune. Francia, Germania, Regno Unito e Polonia parlano di una “coalizione di volontari” da 30.000 soldati per sostenere Kiev, mentre l’Italia ipotizza di alzare la spesa militare al 2,5% del PIL. Bruxelles, intanto, spinge sul nuovo programma IRIS², una costellazione di 290 satelliti destinata a garantire comunicazioni sicure e indipendenti entro il 2030 per svincolarsi dal ricatto implicito di Starlink, ora al centro delle tensioni tra USA e Ucraina per l’accesso ai minerali critici come uranio, titanio e litio.
Ma le incognite sono enormi: chi guida? Con quali regole? E chi paga? Perché il problema europeo, oggi, non è solo la volontà politica, ma la frammentazione strategica. Se non si superano le divisioni storiche tra Nord e Sud, Est e Ovest, il sogno di un esercito comune rischia di restare un’illusione.
Non bisogna dimenticare che il vero ombrello sopra la testa dell’Europa è atomico. Oggi la deterrenza nucleare USA è il pilastro della NATO. Se Trump decidesse di sfilarsi, resterebbe solo la Francia con i suoi 290 ordigni, come riportato dal SIPRI (Stockholm International Peace Research). Basterebbero a frenare Mosca? Forse. Ma più probabilmente, no. E allora l’Europa dovrebbe decidere se sviluppare una propria dottrina nucleare condivisa, con tutto ciò che questo comporterebbe in termini politici, etici e militari.
La crisi esplosa a Washington è l’anticamera di un cambio di paradigma: se gli Stati Uniti tornano a guardarsi l’ombelico, l’Europa deve diventare adulta. Non c’è alternativa. O investiamo ora in difesa, innovazione e sicurezza comune, oppure lasceremo che sia la storia – e, forse, Putin – a decidere per noi. E questa volta, senza alcuna garanzia che la storia sarà clemente.
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