I progetti per il dopo-Gaza, le opinioni pubbliche, i raiss: una valutazione

Se i militanti di Hamas provassero a fare proselitismo in Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti verrebbero messi in prigione, fatti scomparire, torturati a morte nelle stanze dei servizi segreti. In privato i dittatori ed i monarchi assoluti del Paesi arabi mediorientali sono contenti che Israele stia facendo per loro il lavoro di smantellare un nemico mortale, la Fratellanza Mussulmana, e – finalmente – dia una lezione ad una milizia protetta e finanziata dall’Iran, (se poi un destino benevolente riservasse la stessa sorte agli Houti dello Yemen ed agli sciti di Hezbollah del Libano probabilmente sarebbero ancora più contenti). Questa contentezza si ferma però alla sfera privata. Le opinioni pubbliche arabe – nutrite per decenni a pane ed antisemitismo – sono furiose per ciò che sta accadendo ai palestinesi nella Striscia di Gaza e le Primavere Arabe hanno ricordato ai dittatori ed ai monarchi assoluti del Medio Oriente ciò che Machiavelli andava a suo tempo predicando: un Principe deve farsi temere, non necessariamente deve farsi amare, ma sicuramente non deve farsi odiare dal suo popolo. Assistiamo quindi ad un capolavoro di doppiezza sulla questione di Gaza: i Paesi arabi della regione che premono in tutte le sedi pubbliche per un cessate il fuoco immediato mentre molti loro alti funzionari sperano privatamente che l’esercito israeliano arrivi a Rafah per finire il lavoro.
La religione ed il panarabismo sono due elementi fondanti dell’identità delle Nazioni arabe e degli arabi stessi, poveri o ricchi che siano, fellah o raiss; queste due concezioni culturali fanno sì che sia pressochè impossibile considerare come un nemico un fratello arabo ed islamico quando questi combatte contro gli ebrei in Palestina, anche se non se ne accettano i principi ed i metodi. Diversa è la cosa se lo scontro avviene in una dimensione inter-araba, ma diventa difficilissimo anche per buona parte delle élite arabe accettare fino in fondo che un arabo che si oppone – detto genericamente – “alle forze nemiche dell’Islam” possa essere trattato come un avversario, qualsiasi cosa faccia. A tutto ciò va aggiunta una motivazione invece molto pratica: a farsi nemiche le milizie islamiste si rischia di venire uccisi. Ad Anwar el-Sadat è capitato.

La volontà di pacificare la regione, di allentare le tensioni con l’Iran, di promuovere lo sviluppo economico interno, di aumentare il proprio soft power, di volgere a proprio beneficio il confronto in atto tra le Grandi Potenze sviluppando un rapporto transazionale con tutte loro – elementi classici del comportamento di uno Stato vestfaliano – è stata la cifra politica che i Paesi arabi della regione hanno perseguito fino al 6 ottobre 2023. Ora l’equilibrio è saltato ed assistiamo al tentativo di tenere insieme tutto ciò con la difesa della questione palestinese ed il confronto con lo Stato Ebraico. Un governo guidato da un’Autorità Nazionale Palestinese – a cui dare una riverniciata tecnocratica ed efficientista che la renda un po più accettabile ai suoi sudditi – che governi il dopo-Gaza e la Cisgiordania e all’interno del quale potrebbe trovare protezione e sopravvivenza ciò che rimarrà di Hamas – prezzo necessario da pagare all’Iran ed a buona parte dell’opinione pubblica della regione, oltre che ad evitare attentati sul proprio territorio – potrebbe essere la soluzione auspicata dai Paesi Arabi per tenere insieme capra e cavoli. Questa soluzione permetterebbe inoltre a questi Paesi di mantenere una loro storica volontà: non essere parte in causa diretta in Palestina. Le “paci fredde” con Israele di Egitto e Giordania servirono appunto a questi Paesi per districarsi dalla “questione palestinese” e non per impegnarvisi maggiormente. Se ci saranno – e ci saranno – degli appaltatori che vorranno ricostruire Gaza i Paesi del Golfo li finanzieranno, ma non c’è da attendersi la presenza diretta di Egiziani, Giordani, Sauditi nel futuro di Gaza. (Qualcuno pensa che gli Emirati potrebbero essere più interventisti; chi scrive è scettico a riguardo).

L’ipotesi di un governo per i territori palestinesi così come sopra prospettata è destinata a fallire. Qui entra in gioco un’altra opinione pubblica: quella israeliana. Un’opinione pubblica che, unica nella regione, ha la possibilità di esprimersi attraverso il voto. E la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana vede ora la cosiddetta “questione palestinese” nell’ottica dell’Olocausto. Le belve assetate di sangue e di stupro che hanno condotto gli attacchi del 7 ottobre non avrebbero alcuna difficoltà a sterminare 7 milioni e mezzo di ebrei se ce ne fosse l’occasione; né l’Autorità Palestinese, né l’opinione pubblica palestinese hanno condannato le stragi del 7 ottobre e vanno quindi considerate come potenziali complici di un futuribile Olocausto. Da ciò nasce un atteggiamento conseguente: per la maggior parte dell’opinione pubblica israeliana Israele con Hamas deve andare fino in fondo e non deve fare alcuna concessione all’ANP. Dopo il 7 ottobre gran parte dell’opinione pubblica israeliana non si sente più di fronte alla questione “palestinese”, ma ad una questione di vita o di morte.

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