Covid in agguato, perplessità dietro una maschera

Indossare una maschera è diventato un riflesso quasi automatico tra le azioni del quotidiano. La portiamo per proteggerci dal virus. Sostanzialmente, dai nostri simili. Per quanto tempo ancora saremo tenuti in ostaggio?

Tunnel

Parigi – La ragazza in fila al supermercato ha lo sguardo assente, chissà dove. Sulla sua mascherina, in caratteri grandi e colori accesi, la scritta “I’m smiling”. Quale miglior riassunto dell’attuale condizione umana? In bilico tra necessità di (re)agire e profonda perplessità.

Un’altra stagione è passata, il cielo si tinge pian piano di grigio, in perfetta armonia sullo sfondo del film di cui ognuno di noi è da qualche mese protagonista. Una storia di fantascienza mista a horror, trasformatasi in sognante fantasy nei mesi estivi, poi in thriller psicologico. Uno di quelli dai tempi lenti, dove l’apparente tranquillità è turbata dalla netta, inquietante sensazione che il pericolo si nasconda molto più vicino di quanto non si creda.

Indossare una maschera è diventato un riflesso quasi automatico tra le azioni del quotidiano. La portiamo per proteggerci dal virus. Sostanzialmente, dai nostri simili. Sì, ma per quanto ancora e con quali conseguenze? Quanto tempo ci vorrà, dopo, per ritrovare la fiducia che c’era, per ritrovarsi? Insomma, per quanto tempo ancora saremo tenuti in ostaggio?

Ostaggi

Alla vista di un mondo mascherato si rafforza la sensazione di essere tenuti in ostaggio. In ostaggio da un virus che ci ha paralizzato, che ci ha oscurato una primavera. Che ci siamo portati in valigia, in un’estate di finta quiete che più di ogni altra avremmo voluto durasse in eterno. Tenuti in ostaggio dal virus ma anche dal governo, le cui scelte, più o meno sensate, più o meno disinteressate, dobbiamo prendere per oro colato. Siamo ostaggi di noi stessi, della nostra paura, più o meno sentita ed esplicitata, di essere contagiati. Di scoprire un giorno che i nostri amati lo siano. Con la conseguenza che niente di quello che facciamo riusciamo più a farlo normalmente.

La distanza non fa parte del nostro sistema. Salutarci col bacio, sfiorarci mentre parliamo e abbracciarci non sono semplici gesti, ma indispensabili tasselli di ogni incontro, che se mancano fanno sentire spiazzati. Ecco che, in un misto tra desiderio di scambio e diffidenza, si finisce per non saper più come relazionarsi agli altri. Persino le distrazioni più semplici, come incontrare degli amici per fare due chiacchiere, non riescono ad avere la stessa leggerezza.

Sembra di stare in un dipinto di Edward Hopper, dove le persone mantengono un aspetto solitario e distante nonostante siano insieme, nella stessa stanza. Una presenza che nasconde una perpetua assenza. Ognuno è perso nel proprio mondo interiore, nelle nuove incertezze. Nel pensiero di un futuro diverso, di svolte a cui si vuole credere ma che sembrano irraggiungibili. Lo si legge negli occhi. Eppure anche questi strambi incontri risultano oggi essenziali per salvare la propria mente, oltre al corpo.

Le essenziali relazioni sociali

Ha portato non poco sconforto, a Parigi, la notizia della quasi sicura chiusura dei bar a partire da domani. La capitale sarebbe ormai entrata a far parte delle zone di “massima allerta”. Inutile negarlo. Nei bar ci si rilassa, ci si avvicina, ci si eccita con i discorsi. La misura trova quindi tutto il suo senso. Ma come potrà agire se non gravemente sulla psicologia delle persone?

Parliamo di un paese, la Francia, in cui, a fronte di numeri inquietanti, già da più di un mese la mascherina è obbligatoria dappertutto. In cui toglierla dopo un’intera giornata, seduti al tavolo di un bar o ristorante, era diventata l’unica, improbabile ancora di salvezza. Potersi guardare bene in faccia, fare finta, il tempo di una consumazione, che tutto fosse normale, dava la (mal)sana sensazione di prendere una boccata d’aria. Di respirare. Incoscienza o, in un’altra accezione, istinto di sopravvivenza?

La maschera accresce la distanza mentale dalle persone. Rende la conversazione più difficoltosa, costringe ad alzare la voce. Crea disagio. Sempre se con la gente ci si parla. D’altronde mancava solo questo a metropoli come Parigi, Londra o Berlino, in cui migliaia di persone si incrociano ogni giorno evitando di guardarsi – men che meno di parlarsi – per far chiudere del tutto la gente in bolle.

Se in tanti hanno saputo affrontare con forza e ottimismo la chiusura forzata dei mesi primaverili, il paventarsi di un nuovo, progressivo isolamento nel grigio autunno appena arrivato sembra atterrire anche i più forti. Fargli temere di non riuscire ad affrontare, questa volta, la distanza dagli altri. Comunque non per molto.

Per quanto tempo ancora?

Fa strano ricominciare a guardare ossessivamente nelle news i numeri della giornata, ma allo stesso tempo è inevitabile. Li guardiamo con esperienza, timore, speranza. Speranza che questo virus ci lasci in pace una volta per tutte, per ricominciare a vivere come sappiamo. Per poter pianificare il futuro, dal lavoro ai progetti personali e di famiglia, alla prossima vacanza alla quale mirare col pensiero nei momenti di stress.

Per ricominciare a percepire ed emanare con naturalezza quel calore umano così benefico, necessario a un punto di cui forse non ci eravamo mai accorti prima. Per riabituarci a stringerci senza temere. Perché chi più chi meno ci siamo abituati a vivere schivando il contatto. C’è voluto del tempo e altrettanto o di più ce ne vorrà per smettere di farlo.

Che bello sarebbe se quella stessa imprevedibilità con cui il virus si è manifestato e si rimanifesta oggi potesse con altrettanta forza scacciare questo male una volta per tutte. Trasformare improvvisamente il thriller in una commedia dai toni agrodolci, come la vita che conosciamo. Ce lo saremo pure meritati, un lieto fine.

 

Foto di Free-Photos da Pixabay