
La decisione della Commissione europea di infliggere a Google una multa record da 2,95 miliardi di euro per abuso di posizione dominante nel settore delle tecnologie pubblicitarie ha avuto un’eco immediata a Washington. Non tanto per le implicazioni giuridiche, l’azienda avrà sessanta giorni per ricorrere e proporre rimedi, quanto per la reazione politica del presidente Donald Trump, che ha trasformato la vicenda in un nuovo fronte di scontro con l’Unione Europea.
Trump ha denunciato le sanzioni come “azioni discriminatorie” e ha minacciato di rispondere con ulteriori dazi commerciali qualora Bruxelles continuasse a colpire le aziende statunitensi del settore tecnologico. Un linguaggio che richiama lo spettro di una guerra commerciale travestita da difesa dell’innovazione americana.
Secondo Trump l’Europa attacca il fisco americano
La narrativa del presidente è chiara: l’Europa userebbe le regole antitrust come strumento fiscale, un pretesto per colpire le multinazionali statunitensi più redditizie e, indirettamente, le casse federali. Non è un caso che Trump abbia citato Apple come precedente “ingiustamente” penalizzato, sostenendo che la compagnia avrebbe dovuto ricevere indietro i miliardi pagati a Bruxelles.
Eppure la questione è più complessa di quanto il presidente voglia far credere. Le autorità antitrust europee non muovono accuse leggere: contestano a Google pratiche di auto-preferenza e conflitti di interesse tali da distorcere la concorrenza, soffocare i rivali e ridurre le possibilità di scelta dei consumatori. La commissaria alla concorrenza, Teresa Ribera, ha ricordato che i mercati digitali devono essere fondati “sulla fiducia e sulla correttezza” e che Google dovrà ora presentare soluzioni concrete per porre fine agli squilibri creati.
Le Big Tech interesse nazionale
Il conflitto dunque non è solo tra Bruxelles e Mountain View, ma tra due modelli regolatori: da una parte, quello europeo, che insiste su regole stringenti per preservare la concorrenza e i diritti dei cittadini; dall’altra, quello americano, che nel discorso trumpiano tende a identificare le fortune delle Big Tech con l’interesse nazionale. È un cortocircuito politico: chi critica la Silicon Valley per il suo strapotere interno, oggi si trova a difenderla come baluardo dell’ingegno statunitense contro la “burocrazia” europea.
La minaccia di Trump di ricorrere alla Sezione 301 del Trade Act del 1974, lo stesso strumento già usato in passato per giustificare dazi punitivi, è un segnale eloquente. Non si tratta solo di difendere Google o Apple, ma di riaffermare la sovranità americana nello spazio economico globale, anche a costo di incrinare rapporti commerciali già fragili. Proprio mentre Stati Uniti ed Europa cercano di consolidare un accordo commerciale travagliato, l’uscita di Trump rischia di alimentare nuove tensioni.
Una duplice sfida
Per l’UE la sfida è duplice: difendere la coerenza del proprio impianto normativo senza piegarsi al ricatto delle tariffe, e al tempo stesso evitare che la disputa si trasformi in un boomerang politico ed economico. Perché se è vero che colpire Google significa affermare un principio di equità nel mercato digitale, è altrettanto vero che l’Europa ha bisogno di un equilibrio nei rapporti transatlantici, soprattutto in un contesto geopolitico incerto.
Trump, dal canto suo, conferma una visione muscolare della politica commerciale: ogni sanzione europea a una multinazionale americana diventa un attacco all’intero Paese. È una logica che rafforza la sua immagine di difensore dell’industria statunitense, ma che rischia di ridurre il dialogo a una sequenza di minacce e ritorsioni.
Alla fine, la vera domanda è se il futuro dell’economia digitale debba essere regolato dal diritto o dalla forza. Bruxelles ha scelto la strada del diritto, nel nome della concorrenza e della tutela dei consumatori. Trump ha scelto quella della forza, nel nome dell’orgoglio nazionale e degli interessi immediati. Toccherà agli equilibri politici e commerciali dei prossimi mesi dirci quale delle due visioni prevarrà.