Askatasuna e la città spaccata. Lo Russo nel punto di rottura?

Città contro Stato. Scontri, nove agenti feriti e una frattura istituzionale sempre più profonda: il sindaco rivendica il dialogo mentre il Governo invoca la linea dura. Torino diventa il campo di battaglia politico sull’ordine pubblico

Torino è una città che non ha mai separato del tutto la politica dalle sue strade. È una città industriale e universitaria, operaia e intellettuale, Medaglia d’Oro della Resistenza, dove il conflitto sociale è sempre stato parte del paesaggio urbano. Ma ciò che è accaduto ieri, sabato 20 dicembre 2025, va oltre la cronaca di una manifestazione degenerata: è la rappresentazione plastica di una frattura profonda tra movimenti, istituzioni locali e Governo, esplosa in una città blindata, presidiata, attraversata da idranti e lacrimogeni a pochi giorni dal Natale.

La manifestazione nasce due giorni dopo lo sgombero del centro sociale Askatasuna, storica sede di corso Regina Margherita 47, nel quartiere Vanchiglia. Per gli organizzatori non è la semplice difesa di uno spazio fisico, ma una risposta politica a quello che viene definito apertamente un “attacco ai movimenti”, una repressione che il Governo farebbe passare come tutela della sicurezza pubblica. Askatasuna, nella narrazione dei suoi sostenitori, diventa così un simbolo: non solo un edificio, ma un presidio di conflitto, mutualismo e mobilitazione.

Fin dal mattino Torino cambia volto. Il quartiere Vanchiglia è presidiato, le strade controllate, gli accessi monitorati. La percezione è quella di una città militarizzata, preparata allo scontro prima ancora che il corteo inizi. L’ordine pubblico non è più solo una questione tecnica: diventa il campo di battaglia politico su cui si misurano due visioni opposte dello Stato.

Il raduno prende forma nel primo pomeriggio davanti a Palazzo Nuovo, cuore universitario e simbolico della città. Sono le 14.30 quando il corteo muove i primi passi. In testa, uno striscione che è già una dichiarazione identitaria e storica: Torino partigiana Que viva Askatasuna”. I numeri diventano immediatamente terreno di scontro: 10.000 partecipanti secondo gli organizzatori3.000 per la Questura, con stime intermedie che parlano di 4-5 mila persone. Ma più dei numeri conta la composizione: studenti, attivisti, militanti, cittadini, esponenti politici e rappresentanti istituzionali.

Il serpentone attraversa le strade del centro con slogan, bandiere, cartelli. Tra questi, uno cattura l’attenzione e diventa subito simbolo visivo della giornata: il cartello dedicato ad Augusta Montaruli, deputata torinese di Fratelli d’Italia, con la scritta “bau bau”. Non è solo una provocazione ironica: è un messaggio politico, un modo per ridicolizzare la narrazione securitaria del centrodestra e personalizzare lo scontro. Quel cartello, fotografato e rilanciato, anticipa la durezza delle parole che arriveranno di lì a poche ore.

Poi qualcosa cambia. Quando la testa del corteo tenta di riavvicinarsi allo stabile sgomberato di corso Regina Margherita, a poche centinaia di metri dal percorso autorizzato, la tensione accumulata esplode. Volano bottiglie, pietre, oggetti, bombe carta. Le forze dell’ordine rispondono con idranti, lacrimogeni e cariche, avanzando in assetto antisommossa. La manifestazione si spezza, la piazza si frammenta, la protesta si trasforma in scontro.

Il bilancio, nel tardo pomeriggio, converge su un dato che pesa politicamente: undici agenti di polizia feriti. Un numero che diventa immediatamente il perno della narrazione governativa.

Il corteo si conclude in corso Casale, davanti alla chiesa della Gran Madre, ma Torino non torna alla normalità. Le immagini scorrono sui telefoni, sui social, sui siti delle agenzie, e la città resta sospesa, spettatrice di una domanda che attraversa tutta la giornata: dove passa oggi il confine tra dissenso e ordine pubblico?

Dal microfono, a fine corteo, gli organizzatori rifiutano la parola “sconfitta”: “Ci troveranno in ogni piazza di questo Paese… la nostra casa ora sono le strade o i cortei e le assemblee.

Il portavoce, citato come Stefano, scandisce una frase destinata a diventare parola d’ordine: Oggi non è la data di una fine, ma di un inizio, annunciando un’assemblea cittadina il 17 gennaio e un corteo nazionale a Torino il 31 gennaio. La linea è chiara: l’azione contro Askatasuna viene letta come attacco ai movimenti nel loro insieme, con riferimenti anche alla mobilitazione per la Palestina.

Ma Torino non è solo piazza: è anche Palazzo Civico ed è qui che lo scontro si fa istituzionale.

Solo il giorno prima, 19 dicembre, il sindaco Stefano Lo Russo (Partito Democratico) aveva tracciato una linea netta, destinata a diventare chiave di lettura della giornata successiva: “La vera sfida delle città oggi è saper gestire una convivenza civile, unire e non dividere, mediare e non radicalizzare. Da Sindaco di una città Medaglia d’Oro della Resistenza e fortemente impegnata nella tutela dei diritti, voglio ribadire che Torino dissente profondamente dalle scelte e dall’impostazione culturale di questo Governo”.

Non è solo una critica politica, è una presa di posizione culturale: Torino come città che rivendica mediazione, diritti, spazi sociali, contro una visione statale fondata sulla sola repressione. Lo Russo ribadisce che l’amministrazione “non intende modificare le proprie priorità né cambiare approccio”, indicando il futuro di corso Regina 47 come spazio a vocazione sociale e pubblica.

Dopo gli scontri, il sindaco interviene nuovamente, con parole durissime sulla violenza: “Desideriamo condannare con fermezza gli episodi di violenza che si sono verificati durante il corteo di oggi”, esprimendo solidarietà alle forze dell’ordine, ai commercianti e ai cittadini. E aggiunge: “Nulla può giustificare la violenza e i danneggiamenti, mai”, sottolineando come questi comportamenti “compromettano gravemente la credibilità, la forza e il senso stesso delle rivendicazioni”.

Allo stesso tempo, Lo Russo non arretra sul piano politico: “Crediamo ancora nel percorso del patto per Askatasuna”. Una posizione che tenta di tenere insieme legalità e dialogo, ma che viene immediatamente attaccata dal centrodestra.

È proprio su questo punto che sembrerebbe concentrarsi la principale accusa di incoerenza rivolta al sindaco. Nei giorni precedenti lo sgombero, infatti, Lo Russo aveva certificato la cessazione del patto sul piano amministrativo, a seguito delle violazioni riscontrate; il giorno successivo, parlando di “percorso del patto”, ha invece lasciato intendere di riferirsi non tanto all’atto tecnico ormai decaduto, quanto al metodo politico e progettuale del dialogo e della rigenerazione urbana. Una distinzione sottile, mai esplicitata fino in fondo, che apre una frizione comunicativa evidente: coerente nel principio – mediare, non radicalizzare – ma ambigua nella formulazione, tanto da alimentare la narrazione di una retromarcia politica..

Da questa ambiguità comunicativa, più che da una singola dichiarazione, nasce un interrogativo politico più ampio: se il sindaco Lo Russo sia ancora in grado di governare fino in fondo una dinamica che sembra ormai eccedere i confini della mediazione istituzionale. Le sue parole rivendicano una visione alta della città, fondata su dialogo e inclusione, ma i fatti raccontano una tensione che cresce, una piazza che radicalizza e uno scontro con il Governo che si fa strutturale. Il rischio, per Palazzo Civico, è che la linea del dialogo venga percepita non come una scelta di forza, ma come una difficoltà nel tenere insieme ordine pubblico, coesione sociale e credibilità politica.

Sempre sul fronte della sinistra, Marco Grimaldi, vicecapogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra (AVS) alla Camera, insieme ad Alice Ravinale, capogruppo AVS in Consiglio regionale del Piemonte e Sara Diena, capogruppo di Sinistra Ecologista al Consiglio comunale di Torino, parla di “repressione che questo Governo vuol far passare per tutela della sicurezza pubblica”, raccontando una piazza vissuta “pacificamente” fino all’intervento degli idranti e denunciando un “clima di tensione e paura alimentato dalla militarizzazione del quartiere di Vanchiglia, voluta dal Governo”. La condanna della violenza resta: “Ogni violenza e provocazione per noi è sbagliata”.

La risposta del Governo è netta. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi esprime solidarietà agli agenti feriti. Matteo Salvini, leader della Lega, invoca le “ruspe sui centri sociali” e definisce Askatasuna un “covo di delinquenti”. Antonio Tajani, segretario di Forza Italia e vicepremier, interviene parlando di violenze inaccettabili e ribadendo la necessità di una linea di fermezza; Paolo Zangrillo, ministro per la Pubblica Amministrazione, li chiama “eversivi”; Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia, parla di “orrido volto di Askatasuna” e lo descrive come fatto di “violenza … e bombe carta”.

Nel tardo pomeriggio arriva la dichiarazione più dura, che trasforma lo scontro in accusa diretta. È quella di Augusta Montaruli, deputata torinese di Fratelli d’Italia e vicecapogruppo alla Camera: “Le responsabilità politiche delle violenze a Torino sono ben chiare”. Per Montaruli, “lo Stato sotto la guida di Giorgia Meloni è più forte di chi lancia razzi e scende in piazza armato”, e “le responsabilità politiche delle violenze di oggi hanno nomi e cognomi ravvisabili nel sindaco Lo Russo”, così come “in tutti quei partiti della politica e in quei cittadini che sono scesi in piazza nello stesso corteo degli incappucciati”. Definisce “semplicemente indecente” la presenza di assessori in piazza e conclude rivendicando che “solo con il Governo Meloni e il ministro Piantedosi finalmente lo Stato torna ad essere dalla parte giusta, quella degli uomini in divisa”.

In mezzo resta Torino. Una città che oggi appare spaccata tra due narrazioni inconciliabili: da un lato sicurezza, fermezza, Stato; dall’altro diritti, mediazione, conflitto sociale. Non è solo Askatasuna: è il modello di città, il confine fragile tra ordine pubblico e democrazia. E mentre le strade tornano lentamente silenziose, vi è sempre quella domanda, importante, che resta in sospeso: chi decide, oggi, dove finisce la sicurezza e dove inizia il dissenso?