“Vado a votare, ma non voto”: l’astuzia retorica di Giorgia Meloni

Il Premier annuncia che non ritirerà la scheda: un messaggio ambiguo che mina la partecipazione popolare e tradisce lo spirito repubblicano.

Meloni

Il 2 giugno, festa della Repubblica, Giorgia Meloni ha scelto un palcoscenico carico di simbolismo, i Fori Imperiali, per lanciare un messaggio che stride con lo spirito repubblicano: “Vado a votare, ma non ritiro la scheda”. Una dichiarazione che, al netto delle formule ambigue, si traduce in un invito all’astensione mascherato da esercizio democratico. Un cortocircuito istituzionale, soprattutto se a pronunciarlo è il Presidente del Consiglio.

L’inganno semantico e il danno democratico

Nel linguaggio politico le parole non sono mai innocenti. Dire “vado a votare” per poi precisare che non si ritirerà la scheda è un modo abile, ma disonesto, di suggerire l’astensione, evitando però di pagarne il prezzo politico. È un linguaggio che gioca sulla confusione, sulle pieghe semantiche di un’azione che resta, nella sostanza, un sabotaggio della partecipazione popolare. Un gesto che, come ha sottolineato il senatore Dario Parrini (Pd), equivale in tutto e per tutto a rimanere a casa. Solo che in questo caso lo si fa con il cappotto istituzionale dell’ipocrisia.

Un quorum temuto, non rispettato

L’obiettivo non dichiarato ma chiarissimo della premier è sabotare il quorum. E se a farlo fosse un cittadino qualunque, rientrerebbe nella legittimità del suo diritto. Ma qui parliamo del capo del governo, che dovrebbe incoraggiare la partecipazione, non manipolarla. La scelta di Meloni appare tanto più grave perché il referendum riguarda temi cruciali per la vita dei lavoratori: precarietà, licenziamenti illegittimi, sicurezza sul lavoro. Evitare che i cittadini si esprimano su questi argomenti significa temere il verdetto del popolo, non onorarlo.

Il coro della maggioranza: sabotaggio corale

Meloni si unisce così al già nutrito coro del “non voto”, inaugurato da figure istituzionali di primo piano come il presidente del Senato Ignazio La Russa e vari ministri della sua maggioranza. Un fronte compatto che non difende un’idea, ma nega lo strumento con cui quella stessa idea potrebbe essere respinta: la democrazia diretta. Il parlamentare Angelo Bonelli (Avs) parla di “lista dei sabotatori del referendum”. Qui non si discute il merito dei quesiti, ma la legittimità del popolo a esprimersi.

Il populismo dell’astensione

Chi ha costruito le proprie fortune politiche sull’opposizione ai “poteri forti” e sulla retorica della “volontà popolare” oggi si rifugia in una pratica elitaria: non far votare, non contare i voti, non rischiare di perdere. L’astensione è diventata lo scudo della destra di governo, che teme di veder certificata nelle urne la distanza tra la propaganda e la realtà. Come ha affermato Giuseppe Conte (M5S), il messaggio della premier è “vergognoso”, specie perché pronunciato il 2 giugno, giorno in cui l’Italia scelse la Repubblica. Allora si lottava per il diritto di voto. Oggi lo si svuota dall’interno.

Partecipare per smentire il cinismo

Questa vicenda non è solo uno scontro politico. È una questione di etica istituzionale. I cittadini hanno davanti una scelta chiara: rispondere all’astensione imposta con una partecipazione convinta. Andare alle urne non solo per dire sì o no ai quesiti referendari, ma per riaffermare il diritto a decidere. L’invito non è solo alla mobilitazione, ma alla consapevolezza: se chi governa ha paura del vostro voto, è proprio quel voto che può cambiare le cose.