Volodymyr Zelensky ha aperto alla possibilità di nuove elezioni presidenziali entro tre mesi. Un annuncio che, a prima vista, suona come un gesto democratico, quasi liberatorio dopo due anni e mezzo di legge marziale e un mandato scaduto nel pieno della guerra. Ma dietro questa disponibilità c’è un “se” grande quanto l’intero teatro di guerra ucraino, la sicurezza del voto dovrà essere garantita dagli Stati Uniti e dall’Europa.
Perché l’Ucraina non può votare da sola
Il presidente ucraino non può fingere ciò che è ovvio. Senza un intervento esterno, oggi l’Ucraina non ha né le condizioni logistiche, né quelle costituzionali, né quelle militari per organizzare un’elezione minimamente credibile. Milioni di cittadini sono sfollati o all’estero, il registro elettorale è fermo al 2021, i soldati non dispongono di alcun sistema di voto remoto e intere regioni, occupate o bombardate, impedirebbero a una parte del popolo ucraino di esercitare il proprio diritto fondamentale. Le code ai seggi diventerebbero bersagli perfetti per i missili russi, una distorsione letale della democrazia.
L’accusa di Trump e il suo peso geopolitico
Trump, dal canto suo, rilancia l’accusa secondo cui Zelensky starebbe “usando la guerra per non indire elezioni”. Un refrain che ricalca fedelmente la propaganda russa e che mira a indebolire la posizione negoziale di Kiev proprio mentre sono ripartiti gli sforzi, fragili e contraddittori, per un accordo di pace. È in questo contesto che l’apertura alle urne sembra più un gesto di ingegneria diplomatica che una reale pianificazione elettorale, un’offerta messa sul tavolo per non perdere il sostegno americano nella stagione più incerta delle relazioni transatlantiche.
La condizione russa: trattare solo con un nuovo leader
Ma la questione si è fatta più intricata proprio perché Vladimir Putin, da anni, ripete che non tratterà mai con Zelensky. Il Cremlino ha lasciato filtrare più volte, in modo ambiguo ma politicamente rilevante, che un nuovo presidente ucraino, purché eletto e non compromesso dall’“intransigenza” di questi anni, potrebbe rappresentare un interlocutore accettabile per chiudere la partita della guerra. Una condizione che non è una concessione diplomatica, ma un ricatto strategico, Mosca non riconosce la legittimità dell’attuale leadership e pretende, in sostanza, che l’Ucraina cambi volto prima ancora di discutere i confini del proprio Stato.
Il paradosso occidentale
E qui si apre la contraddizione più profonda della fase attuale. Da un lato, Washington e Bruxelles sanno perfettamente che pretendere elezioni “perfette” in un Paese bombardato equivale a fare un favore al Cremlino. Dall’altro, la stabilità interna dell’Ucraina non può reggersi all’infinito sulla sospensione del processo democratico. Zelensky lo sa, la sua legittimazione politica, pur rafforzata simbolicamente dalla resistenza alla Russia, giuridicamente è oggi più fragile di ieri. Ma un voto sotto le bombe, senza garanzie esterne, rischierebbe di produrre l’effetto opposto, una presidenza contestata, vulnerabile e manipolabile dall’esterno.
Elezioni protette dall’Occidente: soluzione o rischio?
È qui che entra in gioco la realpolitik. L’intervento occidentale per blindare un’elezione, monitorarla, finanziarla, proteggerla fisicamente, non sarebbe solo un’operazione tecnica. Sarebbe un atto politico di impegno diretto nella successione istituzionale di un Paese in guerra. Gli alleati sono pronti a farlo? E soprattutto, un voto organizzato grazie alla “tutela” occidentale verrebbe accettato dalla Russia o sarebbe bollato come ulteriore prova di dipendenza da Washington?
Il filo sottile tra democrazia e sopravvivenza
La verità è che, piaccia o no, l’Ucraina potrà votare solo quando l’Occidente deciderà che il rischio politico è inferiore al beneficio strategico. Fino ad allora, le urne resteranno un terreno minato, non solo metaforicamente. E Zelensky, stretto tra le pressioni americane, i ricatti russi e il logoramento interno, potrà solo continuare a camminare sul filo sottile che separa la democrazia dalla sopravvivenza.
