
In una mossa che ha fatto sobbalzare diplomatici e analisti della sicurezza internazionale, Donald Trump ha annunciato il posizionamento di “due sottomarini nucleari in aree appropriate”, una dichiarazione che ha immediatamente attirato l’attenzione della comunità globale non tanto per la strategia militare in sé – gli Stati Uniti dispiegano da anni sommergibili atomici in mari “sensibili” – quanto per il tono teatrale e il tempismo politico, reso ancora più scoppiettante da un’interazione a distanza con l’ex presidente russo Dmitrij Medvedev.
L’annuncio, postato su Truth Social il 1° agosto 2025, segue a ruota i commenti di Medvedev – oggi vicepresidente del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa il quale, con il solito cipiglio da falco, aveva ammonito gli Stati Uniti sulle conseguenze di certi ultimatum, evocando nientemeno che il sistema nucleare “Dead Hand”. Un riferimento sinistro, quasi cinematografico, all’antico meccanismo sovietico che garantirebbe una rappresaglia automatica anche in caso di decapitazione della leadership.
Trump, dal canto suo, ha risposto nel suo stile inconfondibile: senza troppi fronzoli, con un annuncio a effetto, ammiccando all’audience americana più patriottica. Ma poi ha aggiunto, con quel tono da imprenditore che gioca a fare il pompiere dopo aver appiccato l’incendio: “Parole molto importanti… possono spesso portare a conseguenze non volute. Spero che questo non sia uno di quei casi”. Parole che avrebbero potuto suggerire prudenza. Se non fosse che, un attimo prima, aveva appena rivelato pubblicamente il movimento di due asset strategici da guerra nucleare. Un esercizio di coerenza, insomma, degno del miglior funambolo geopolitico.
Il Tycoon non ha chiarito se si trattasse di sottomarini armati con testate nucleari, ma ha tenuto a precisare che si tratta di una misura precauzionale per proteggere il popolo americano. Una dichiarazione che, nel contesto di un confronto verbale con uno degli uomini più aggressivi del Cremlino, suona come il classico “ho solo spostato i pezzi sulla scacchiera, mica voglio davvero giocare”.
Ma cosa aveva detto di così “provocatorio” Medvedev da giustificare, secondo Trump, la mobilitazione dei sottomarini? In un post pubblicato il giorno prima, 31 luglio 2025, Medvedev aveva accusato il presidente americano di usare gli ultimatum come strumento di guerra, aggiungendo: “Ogni nuovo ultimatum americano è un passo non verso un conflitto con l’Ucraina, ma verso una guerra diretta con la Russia”.
Poi, l’affondo più inquietante: “I nostri avversari si illudono di poter attaccare la Russia senza pagare un prezzo apocalittico. Dovrebbero ricordare che il sistema Dead Hand non dorme”, un riferimento che, per chi conosce la dottrina strategica russa, suona più che come una minaccia: come un monito da Guerra Fredda riesumato e lucidato per l’occasione. Le dichiarazioni sono state riportate sia da Reuters sia da The Moscow Times, mentre Al Jazeera ha commentato dicendo si tratta solamente di una “retorica da Armageddon” alimentata ad arte per influenzare l’Occidente.
Il confronto Trump-Medvedev ha quindi preso la forma di un duello verbale ad alta intensità, ma i suoi effetti vanno ben oltre la superficie. Da un lato, Trump cerca di mostrarsi uomo forte, capace di proteggere l’America con pugno di ferro. Dall’altro, Medvedev fa ciò che gli riesce meglio da quando Vladimir Putin gli ha concesso la licenza di sparare frasi bellicose sui social: tenere il mondo col fiato sospeso, ricordando che la Russia ha ancora le chiavi del proprio arsenale nucleare.
Un contrasto di stili, ma anche di strategie. Trump agisce, o finge di farlo, con calcolata teatralità. Medvedev preferisce il tono apocalittico, da leader di una potenza che tutti danno per spacciata, ma che sa ancora ruggire quando serve. E tuttavia, entrambi contribuiscono ad alimentare un clima da scontro nucleare mediatico, in cui la deterrenza non si esercita più solo attraverso le manovre militari, ma anche – e forse soprattutto – attraverso i canali digitali e la propaganda incrociata, ma non è certo una novità da prima pagina.
Curiosamente, il Cremlino non ha ufficialmente reagito all’annuncio di Trump. Nessun comunicato da parte di Lavrov, Peskov o Putin. Silenzio. Un silenzio che The Moscow Times ha definito “strategico”, lasciando intendere che Mosca non voglia dare troppo peso a un annuncio probabilmente più simbolico che operativo. In effetti, come sottolinea Reuters, non è insolito che gli Stati Uniti dispieghino sottomarini a propulsione nucleare nelle aree dell’Atlantico o del Pacifico, né che le loro rotte rimangano segrete. La novità, in questo caso, è l’enfasi pubblica con cui l’azione è stata sbandierata da Trump.
E qui arriva il cortocircuito narrativo. Trump invoca la responsabilità delle parole altrui, ma nel frattempo gioca apertamente con simboli di deterrenza atomica, come se spostare due sottomarini nucleari fosse l’equivalente di alzare la voce in un talk show. La sua frase “Spero che questo non sia uno di quei casi” suona come una copertura a posteriori, un paracadute semantico, per non sembrare troppo avventato, quasi a voler credere che la sola ammissione del rischio bastasse a disinnescarlo. Eppure, il messaggio è arrivato a Mosca, a Pechino, a Bruxelles e anche a Kiev, dove il presidente ucraino Zelenskij, pur non intervenendo direttamente sul tema, ha fatto sapere, attraverso fonti diplomatiche, che “ogni segnale di impegno da parte degli USA è cruciale in questa fase del conflitto”.
Al di là dei toni, degli ego e delle citazioni da Guerra Fredda, questa vicenda mostra quanto la crisi internazionale sia entrata in una nuova era: una guerra fredda 2.0, in cui i protagonisti usano le piattaforme social come nuove arene di confronto geopolitico. E se è vero che, come osservano esperti di controllo armamenti – tra cui Hans Kristensen –, parlare pubblicamente di armi nucleari espone a un rischio concreto di erosione della deterrenza, allora quello che è appena accaduto non è solo uno scambio di battute sopra le righe: è un segnale, un promemoria che le parole, a volte, fanno più paura delle bombe. Soprattutto quando arrivano da chi crede, o finge di credere, di poterle sempre controllare.
E l’Europa? In mezzo al fuoco incrociato il vecchio continente osserva e trattiene il respiro nel mentre cerca disperatamente una propria bussola strategica, tra una NATO che resta saldamente americana e una difesa comune ancora in fasce, più promessa che realtà. L’idea che il presidente degli Stati Uniti possa innescare un’escalation nucleare simbolica per rispondere a un post di Medvedev non suona affatto rassicurante dalle parti di Bruxelles, dove si mastica realpolitik ma si digerisce a fatica la spettacolarizzazione del deterrente. Nessuna dichiarazione formale è arrivata di fatto dalla UE, ma il messaggio tra le righe è chiaro: prudenza, proporzionalità e tanta, tanta diplomazia, quasi a voler parafrasare: che qualcuno li fermi, prima che si sfidino davvero anche a Risiko.
Nel frattempo, la NATO si è limitata a ribadire l’importanza di “mantenere i canali di comunicazione aperti” per evitare “fraintendimenti strategici”: un modo elegante per dire che con due leader imprevedibili, ogni parola pesa più di un missile. Nessuna dichiarazione diretta sull’annuncio di Trump, ma un richiamo alla necessità di mantenere la stabilità strategica attraverso canali di comunicazione aperti. Insomma, l’Alleanza Atlantica spera ancora che dietro ai proclami ci sia del calcolo: magari sbilenco, ma almeno razionale.
Pechino, nel frattempo, prende appunti. Come la UE, anche la diplomazia cinese non ha commentato ufficialmente, ma diversi osservatori, tra cui Bonnie Glaser, analista dell’Asia presso il German Marshall Fund, hanno sottolineato su The Guardian che la Cina sfrutta queste schermaglie per mostrarsi come potenza “ragionevole” e alternativa a due giganti bellicosi e imprevedibili. Un paradosso? Forse, ma nella geopolitica contemporanea, anche la compostezza può diventare soft power.
Alla fine, nessuna testata nucleare è stata lanciata, e probabilmente quei due sottomarini di Trump stanno ancora navigando nel silenzio glaciale di qualche oceano, ignari del clamore causato dalle parole del loro comandante in capo onorario. Ma è proprio questo il punto: oggi la minaccia non si misura in megatoni, ma in caratteri digitati. E se bastano due post per agitare l’opinione pubblica globale, forse il vero arsenale nucleare del XXI secolo è la retorica, specie quando arriva da due uomini abituati a trattare la geopolitica come fosse un ring, o peggio, un palcoscenico mediatico.
E l’Europa, lì nel mezzo, costretta a fare i conti con una verità amara: quando due elefanti litigano, è sempre l’erba a soffrire e, stavolta, l’erba si chiama Ucraina o, presto, Polonia o Baltico. O… chi lo sa? Dipende tutto dal prossimo post.
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