Trump, il Re Sole della Pennsylvania Avenue

Trump costruisce una sala da ballo da 200 milioni: ora manca solo il trono per completare la monarchia a stelle e strisce

Donald Trump ha finalmente deciso di coronare il suo sogno: una nuova sala da ballo alla Casa Bianca, 200 milioni di dollari per un monumento non tanto alla democrazia americana, quanto al proprio ego dorato. Con lampadari scintillanti, colonne corinzie placcate d’oro e pavimenti di marmo a scacchi, l’ex palazzinaro di New York sembra più interessato a replicare Versailles che a governare gli Stati Uniti.

In fondo, Trump non ha mai nascosto la sua vocazione regale. Se Luigi XIV si presentava come il Re Sole, Trump pare puntare a diventare il Re Donald XLVII, capace di trasformare l’austera residenza presidenziale in una dependance di Mar-a-Lago. Là dove la East Room ospitava eventi solenni e moderati, lui immagina ricevimenti sontuosi, banchetti di stato senza più tende “antiestetiche” e un palcoscenico degno di incoronazioni più che di conferenze stampa.

L’operazione, va detto, ha anche un che di autoironico: Trump pagherà di tasca propria, insieme a donatori anonimi, per lasciare il proprio marchio indelebile sul palazzo simbolo della Repubblica. Non riforme istituzionali, non leggi storiche, non un compromesso bipartisan che sopravviva alle mode politiche: no, la vera eredità trumpiana sarà una sala da ballo dorata, pronta a ospitare serate di gala con i capi di stato stranieri. Magari, tra un valzer e un brindisi, si discuterà anche di dazi e accordi nucleari.

C’è chi vede in questo progetto un gesto di vanità personale. Ma forse è qualcosa di più: il riflesso di una concezione monarchica della presidenza. Trump non governa, regna. La politica estera è spesso condotta a colpi di ultimatum e applausi, come se fosse una parata militare. La politica interna si riduce a decreti e proclami, da diffondere sotto le bandiere issate su pennoni giganteschi che lui stesso ha voluto, alti quanto le sue ambizioni.

Il paragone con il Re Sole non è casuale: anche Luigi XIV centralizzò il potere, mise in scena la propria grandezza e costruì un palazzo come manifesto politico. Trump, dal canto suo, pavimenta il Rose Garden con pietra, incastona sigilli presidenziali nelle decorazioni e sogna la sua Versailles a stelle e strisce. Non è chiaro se a gennaio 2029 la sua sala da ballo sarà inaugurata con un minuetto o con un discorso contro i “nemici del popolo”, ma il messaggio è chiaro: alla Casa Bianca c’è un trono e gli americani, volenti o nolenti, sono i sudditi.

Certo, la storia americana non è tenera con i presidenti troppo innamorati del proprio riflesso. Richard Nixon lasciò l’ombra di Watergate, Ronald Reagan quella del grande comunicatore, Barack Obama quella della speranza incarnata. Trump invece potrebbe lasciare la memoria di un presidente che ha sostituito il prato con il marmo e la sobrietà con l’oro.

Alla fine, non è forse questo il paradosso trumpiano? In un Paese nato in rivolta contro le corone, il comandante in capo si comporta come un sovrano del XVII secolo, che ama i fasti più dei compromessi e le cerimonie più delle leggi. La nuova sala da ballo non sarà solo un luogo di ricevimenti: sarà il monumento di Trump a se stesso, il suo specchio di Versailles, la sua ultima danza da monarca repubblicano.

E forse, mentre i lampadari scintilleranno, qualcuno sussurrerà che la Repubblica americana ha visto passare molti presidenti. Ma solo uno che volle sentirsi re.