
La brezza che arriva dal Mar Giallo scivola tra le strade della città portuale di Tianjin, mentre i drappi rossi e le insegne luminose avvolgono il centro congressi dove questa mattina prende vita uno degli eventi più attesi dell’anno. L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) sceglie Tianjin per il suo vertice annuale, ma questa volta non si tratta di una riunione ordinaria: è la più grande nella storia dell’organizzazione, con oltre venti capi di Stato e leader internazionali presenti.
Nella coreografia perfetta del cerimoniale cinese, ogni arrivo diventa un atto politico. E ogni stretta di mano, una dichiarazione silenziosa. Il primo a catturare l’attenzione dei media è Vladimir Putin. Il presidente russo atterra a Tianjin con l’aereo presidenziale, accolto da una scorta imponente e da un cerimoniale che sa di alleanza più che di protocollo. Reuters descrive così la sua agenda: una visita ufficiale di quattro giorni, con incontri bilaterali cruciali e la partecipazione alla parata militare a Pechino per l’80° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale.
Putin non pronuncia lunghi discorsi davanti alle telecamere. Si limita a poche frasi di cortesia, ma il suo silenzio ha il peso di una strategia: Mosca, isolata dall’Occidente, vuole mostrare che non è sola. La sua presenza a Tianjin è già una dichiarazione: la Russia è ancora un attore globale.
Diverso il tono dell’incontro tra Narendra Modi e Xi Jinping, che segna un capitolo inedito nei rapporti tra India e Cina. È il primo viaggio di Modi in territorio cinese dopo sette anni. L’accoglienza, racconta il Times of India, è calorosa: tappeti rossi, cori di “Vande Mataram”, musica dal sitar e centinaia di connazionali ad attenderlo.
Al momento del bilaterale, Modi sceglie di usare parole nette e misurate: “Siamo impegnati a far progredire le nostre relazioni sulla base del rispetto reciproco, della fiducia e delle sensibilità condivise”. È un impegno formale a ricucire i rapporti, ma anche un avvertimento velato: rispetto e fiducia reciproca sono condizioni imprescindibili.
Xi risponde con la forza delle immagini, tracciando un destino comune: “È la scelta giusta per le nostre due nazioni coltivare amicizia e cooperazione. Il dragone e l’elefante devono avanzare insieme”.
Il dragone e l’elefante, due simboli millenari, evocano la possibilità di un cammino condiviso. Ma dietro la poesia diplomatica resta il gelo di Pahalgam: l’India non firma la dichiarazione congiunta sul terrorismo, contestando la mancata menzione dell’attentato che l’ha colpita duramente. È il segnale che l’autonomia strategica di Nuova Delhi non sarà mai sacrificata sull’altare del multipolarismo.
Recep Tayyip Erdoğan, presidente della Turchia, si muove con discrezione. Nessun proclama roboante, nessun gesto teatrale. Ma il messaggio, rilanciato dall’agenzia turca Anadolu, è chiaro: Ankara vuole giocare il ruolo di ponte tra Asia ed Europa, consolidando la sua posizione di attore indispensabile nelle nuove geometrie del potere. La sua è una diplomazia di equilibrio: presente tra Russia, Cina e India, ma ancora legata alla NATO. Una posizione che gli consente di sedere a più tavoli contemporaneamente, senza mai restare escluso.
Il discorso inaugurale di Xi Jinping dà la misura della posta in gioco. Nella grande sala del summit, davanti a decine di delegazioni, il presidente cinese descrive la SCO come “un modello di cooperazione per la pace e lo sviluppo condiviso”, un’alternativa al dominio di un solo blocco di potere. Denuncia le “pratiche commerciali discriminatorie”dell’Occidente, presentando la SCO come il pilastro di un ordine mondiale multipolare. Non è solo una dichiarazione politica: è la visione di un futuro in cui la Cina, insieme alla Russia e agli altri membri, vuole guidare il Sud Globale verso un sistema internazionale non più dominato da Washington.
Oggi, la SCO appare come il laboratorio di un nuovo equilibrio mondiale. Ma dietro i sorrisi e le strette di mano, restano le divergenze: l’India che non cede sul terrorismo, la Russia che cerca sostegno contro le sanzioni, la Cina che ambisce a guidare il multipolarismo, la Turchia che oscilla tra Oriente e Occidente.
Il vertice di Tianjin mostra una realtà che Washington e Bruxelles non possono ignorare. Mentre gli Stati Uniti restano impantanati tra la gestione della crisi ucraina, la competizione tecnologica con la Cina e le tensioni interne, la SCO diventa il palcoscenico di un’alternativa concreta. Non un’alleanza monolitica – perché le divergenze tra Mosca, Pechino e Nuova Delhi restano profonde – ma un fronte sufficientemente compatto da proiettare l’immagine di un mondo in cui l’Occidente non è più il centro.
L’Unione Europea, frammentata tra interessi energetici e strategie divergenti, appare distante da questo tavolo, relegata a spettatrice di un gioco che si gioca sempre più a Est. La NATO, che sulla carta mantiene la supremazia militare, vede intanto crescere sfide ibride che non si combattono solo con eserciti: diplomazia, economia digitale, energia e narrativa internazionale sono le nuove armi.
La verità è che il multipolarismo evocato da Xi non è più soltanto un progetto. È già una geografia che prende forma. E Tianjin, oggi, ne è la prova tangibile: il dragone, l’elefante, l’orso e l’aquila anatolica mostrano che il futuro non si deciderà soltanto nei palazzi di Washington o Bruxelles, ma nei porti d’Oriente, sulle rotte dell’energia, nelle nuove alleanze del Sud Globale.
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