
Esistono pratiche belliche che segnano una linea di confine netta tra la brutalità inevitabile di un conflitto e la deliberata scelta di trasformare la guerra in strumento di terrore. Una di queste è il cosiddetto doppio colpo: colpire un obiettivo, attendere i minuti necessari affinché soccorritori, medici e giornalisti si precipitino sul luogo, e poi colpire di nuovo. Non si tratta di un incidente, ma di una tattica precisa.
Nei giorni scorsi, Israele ha applicato questa tecnica all’ospedale Nasser di Gaza, il più grande centro medico ancora funzionante nell’enclave assediata. Un primo proiettile ha devastato i piani superiori dell’edificio, uccidendo medici e pazienti. Sette minuti dopo, quando sulle scale già salivano soccorritori e reporter, facilmente identificabili dai giubbotti e dalle telecamere, un secondo colpo ha fatto strage. Almeno venti morti, cinque dei quali giornalisti di testate internazionali.
Le immagini diffuse da Al Ghad TV e da altri media non lasciano spazio a dubbi: il secondo attacco non è stato un errore tecnico o un incidente collaterale. È stato il compimento di una volontà. Lo confermano la precisione dei tempi, la scelta del bersaglio, la conoscenza del prevedibile afflusso di civili. È questa la sostanza del doppio colpo: non fermarsi al nemico armato, ma trasformare in bersaglio coloro che esercitano il dovere morale, e giuridico, di soccorrere.
ll doppio colpo
Non è la prima volta che questa tecnica viene usata. In passato, gruppi terroristici come Al Qaeda e Boko Haram l’hanno adottata per massimizzare la paura. Ed è qui che sta l’indignazione globale: quando uno Stato che si definisce democratico e che si proclama forza “moralmente superiore” assume gli stessi metodi dei gruppi che dichiara di combattere, la legittimità morale crolla.
Benjamin Netanyahu ha parlato di “tragico incidente” e ha annunciato un’inchiesta. Ma le parole non cancellano la sequenza di fatti, né il contesto: la rivista israeliana +972 Magazine ha documentato come gli attacchi a doppio colpo siano diventati procedura quasi standard a Gaza. Difficile credere all’errore, quando la ripetizione diventa regola.
Sul piano del diritto internazionale, l’atto non è un tecnicismo discutibile: è un potenziale crimine di guerra. Colpire volontariamente medici, paramedici, giornalisti significa violare la protezione speciale che le Convenzioni di Ginevra garantiscono a chi presta soccorso. Ma oltre al diritto c’è la dimensione morale, che forse pesa ancora di più: sfruttare il coraggio di chi corre verso le macerie per trasformarlo in condanna a morte è una delle forme più ignobili di disumanizzazione.
Il silenzio o le giustificazioni deboli della comunità internazionale aggravano il quadro. António Guterres ha chiesto un’inchiesta indipendente; Washington, per bocca di Donald Trump, ha espresso “disappunto”. Ma indignazione e parole non bastano se non si accompagnano a conseguenze politiche concrete.
Ogni doppio colpo non uccide soltanto vite umane. Uccide la verità, privando la guerra di testimoni indipendenti. Uccide la fiducia nelle regole comuni che dovrebbero limitare la barbarie. E uccide, infine, la credibilità di chi pretende di combattere in nome della civiltà.
In un conflitto che ha già trasformato Gaza in un cimitero a cielo aperto, l’uso del doppio colpo segna il punto in cui la guerra smette di avere un volto militare e diventa puro strumento di terrore. Non ci sono giustificazioni possibili. Un Paese che sceglie questa tattica non difende la propria sicurezza: distrugge deliberatamente le fondamenta stesse della convivenza umana.