Superga, 4 maggio 1949, dove il mito infranse il cielo

Settantasei anni fa, una collina avvolta dalla nebbia mise fine al sogno più bello del calcio italiano. Ma certe squadre non muoiono: diventano mito

Il cielo è basso su Torino, quel 4 maggio del 1949. È un mercoledì di pioggia, e la collina di Superga è avvolta da una nebbia fitta, come un sudario. Sono le 17:03 quando un rombo d’aereo squarcia il silenzio. È un trimotore Fiat G.212 della compagnia aerea ALI. A bordo ci sono 31 persone. Ma dentro quella fusoliera non ci sono solo uomini: c’è un’intera epopea.

L’aereo impatta contro il muraglione posteriore della Basilica di Superga. L’esplosione è devastante. Non c’è scampo per nessuno. Finisce così, in un lampo accecante, la storia del Grande Torino, la squadra che aveva fatto innamorare un’intera nazione, reduce dalla guerra e alla ricerca di eroi veri.

“L’Italia ha perso i suoi fratelli maggiori”, scriverà Indro Montanelli il giorno dopo. “Erano i nostri modelli, il nostro orgoglio, la nostra speranza”.

Il Torino di allora non era solo una squadra: era l’anima di un popolo. Era Valentino Mazzola, capitano e padre spirituale, che con il gesto del “granata alzato” richiamava i compagni all’assalto. Era Ezio Loik, cuore e muscoli. Era Gabetto, Castigliano, Martelli, Rigamonti, Bacigalupo. Era un meccanismo perfetto, che giocava a memoria e vinceva tutto. Cinque scudetti consecutivi, più di cento gol a stagione, la colonna vertebrale della Nazionale.

Quando il Torino partì per Lisbona, per un’amichevole contro il Benfica in onore di Francisco Ferreira, si pensava a un viaggio di festa. L’ultima fotografia li ritrae sorridenti, eleganti, prima dell’imbarco. Nessuno poteva immaginare che quella sarebbe stata l’ultima volta.

Il volo di ritorno da Lisbona verso l’aeroporto di Torino-Aeritalia si trasforma in tragedia. L’aereo viaggia basso a causa del maltempo, il pilota riceve informazioni errate sull’altitudine. Quando intravede una sagoma tra le nuvole, è troppo tardi. È il muraglione della Basilica di Superga.

“Non c’è più il Torino”, scrive La Stampa il giorno dopo. “Sono morti tutti”.

L’impatto fu talmente violento che il relitto si sparpagliò per decine di metri. Sul luogo accorsero i primi tifosi increduli. Alcuni si inginocchiarono, altri svennero. Qualcuno gridava il nome dei propri beniamini, ma non arrivò alcuna risposta.

Il lutto fu immediato e totale. Il giorno dei funerali, il 6 maggio, più di mezzo milione di persone affollò le strade di Torino. Il corteo funebre si mosse lento, tra le lacrime, le rose e i fazzoletti bianchi. La città sembrava non respirare. Nei bar non si parlava, nelle case si piangeva. In radio passava una sola notizia. Le scuole chiusero. Il Paese intero si sentì orfano.

Persino le squadre avversarie piansero. L’Inter, la Juve, il Milan. Tutti. La FIGC assegnò d’ufficio lo scudetto al Torino. Le ultime quattro partite furono giocate dalla Primavera, e anche le squadre avversarie schierarono le riserve. Tutti persero. Nessuno voleva più vincere.

Il Grande Torino non fu solo calcio: fu cultura, identità e resistenza. In una nazione uscita a pezzi dalla guerra, quei ragazzi rappresentavano una rinascita. Giocavano con classe, vincevano con forza, ma soprattutto vivevano con umiltà. Lo stadio Filadelfia era il loro tempio, ma anche una casa aperta a tutti, dove il calcio diventava famiglia e passione condivisa.

Valentino Mazzola lasciò un figlio, Sandro, che anni dopo avrebbe vinto tutto con l’Inter, portando in campo quella fascia al braccio che odorava ancora di leggenda.

“Non c’è una squadra come il Grande Torino”, dirà anni dopo Gianni Brera. “Perché non è più solo una squadra: è un’idea. È la bellezza del gioco che si fa destino”.

Oggi, come ogni 4 maggio, a Superga si rinnova il pellegrinaggio. Giovani e vecchi, tifosi e curiosi, si ritrovano davanti a quella lapide che resiste al tempo: “Qui riposano gli invincibili del Torino”. E ogni anno il capitano granata legge, con la voce rotta, i nomi dei caduti, uno per uno, come una litania, come un giuramento.

Perché certe storie non finiscono con uno schianto. Vivono nei racconti, nei sogni, nelle maglie sudate dei bambini che ancora oggi gridano ‘Forza Toro!’ nel campetto sotto casa.

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