Premio Nobel a testata multipla

L’Ucraina pronta a candidare Trump per la pace se arrivano i missili Tomahawk. Un ossimoro perfetto per un mondo che scambia la forza per diplomazia.

Volodymyr Zelenskyy

C’è un curioso paradosso che aleggia tra Kiev, Washington e Oslo. Il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy, con la consueta prontezza comunicativa, ha annunciato che se Donald Trump invierà missili Tomahawk all’Ucraina e riuscirà a favorire un cessate il fuoco con la Russia, allora Kiev lo nominerà per il Premio Nobel per la Pace. Armi a lungo raggio in cambio di un simbolo universale di non violenza: è come proporre di piantare un ulivo utilizzando una testata da 450 chili.

L’ironia è evidente, ma il messaggio è tutt’altro che frivolo. Zelenskyy immagina che il linguaggio della pace, oggi, passa attraverso quello delle armi. Pensa che ogni negoziato nasce dal campo di battaglia, e che la deterrenza, non la diplomazia, è la vera lingua franca del mondo contemporaneo. Tuttavia, sentir pronunciare “Tomahawk” e “Premio Nobel per la Pace” nella stessa frase produce un effetto da commedia dell’assurdo, un ossimoro perfetto per descrivere la geopolitica del XXI secolo.

Donald Trump, che da sempre considera i premi come una misura della propria grandezza personale, non ha perso l’occasione di alimentare l’equivoco. Già in passato aveva rivendicato il merito di aver “posto fine a sette guerre” (quali?), dimenticando forse di averne lasciate in sospeso altrettante. Ora, il Tycoon sembra tentato dall’idea di essere incoronato “pacificatore globale” proprio attraverso la fornitura di missili da crociera capaci di colpire la Siberia. In fondo, la pace secondo Trump, come la diplomazia secondo Machiavelli, è una questione di forza, non di coerenza.

Zelenskyy, dal canto suo, gioca una partita ad alto rischio ma anche ad alta visibilità. Nominarlo “per la pace” in cambio dei Tomahawk è un modo di blandire l’ego trumpiano e, allo stesso tempo, mettere pressione su Washington. È una strategia tipica del presidente ucraino: mescolare ironia, dramma e pragmatismo in una narrazione che parli al cuore dell’Occidente. “Se ci date i missili, arriverà la pace”, dice in sostanza. Ma il sottotesto è un altro: “Solo se possiamo colpire più lontano, possiamo sedere al tavolo dei negoziati”.

È il linguaggio della guerra che pretende di generare la pace, come se le esplosioni potessero aprire spazi di dialogo. Ma forse Zelenskyy non sbaglia del tutto. La storia insegna che spesso la pace arriva non quando i contendenti diventano più saggi, ma quando diventano più stanchi, o più vulnerabili. E in questo senso, i Tomahawk potrebbero davvero “portare sobrietà” a Mosca, come suggerisce il presidente ucraino, una sobrietà, però, misurata in megatoni.

Rimane l’immagine finale, quella che farà discutere: un Trump che riceve il Nobel per la Pace da un comitato norvegese mentre, nel frattempo, le sue armi volano sopra le steppe russe. È un’immagine che sintetizza perfettamente lo spirito del nostro tempo: un mondo che celebra la pace solo quando è garantita dalla potenza del fuoco.

Forse è giusto così. Forse il Premio Nobel per la Pace, come la pace stessa, è diventato un riconoscimento pragmatico, non ideale: una medaglia per chi riesce a interrompere una guerra, anche se prima l’ha alimentata. Ma rimane la sensazione che l’umanità abbia perso il gusto dell’ironia sottile e della coerenza morale.

Così, se un giorno vedremo Donald Trump ritirare il Nobel, potremo solo ammettere che l’era della pace è cominciata con un Tomahawk. Un inizio esplosivo, certo, ma, come direbbe qualcuno, “è la strada da seguire”.