
L’elezione di Papa Leone XIV, al secolo Robert Francis Prevost, è uno spartiacque silenzioso ma netto nella storia della Chiesa e, al tempo stesso, nella traiettoria culturale degli Stati Uniti. Primo pontefice americano, figlio della middle America cattolica e della diaspora creola di New Orleans, gli storici dicono che i nonni del papa si trasferirono a Chicago all’inizio del 1900. I registri degli Archivi di Stato della Louisiana mostrano anche che la nonna materna del papa è stata identificata come originaria di New Orleans e suo nonno è stato identificato come nativo di Haiti.
Leone XIV si presenta al mondo come figura composta, intellettualmente solida, pastoralmente esperta. Ma proprio questa sobrietà di fondo, unita alla sua visione globale e misericordiosa del Vangelo, sta già suscitando allarme nei ranghi del cattolicesimo trumpiano.
Steve Bannon, ex stratega della Casa Bianca e voce influente del mondo MAGA, non ha esitato a definire Leone XIV “la scelta peggiore per i cattolici MAGA”. Per Bannon, la sua elezione è stata orchestrata dalla cosiddetta “Deep Church”, in parallelo con il Deep State, con l’intento di neutralizzare la carica politica e culturale del trumpismo all’interno della Chiesa. Il papa, ha detto, non rappresenta l’America che prega e combatte per la vita e la sovranità, ma un’agenda mondialista in abito talare.
Eppure, chi guarda con lucidità alla figura di Leone XIV non troverà in lui né un rivoluzionario né un burocrate. La sua biografia, radicata tra Chicago e il Perù, unisce le virtù della dedizione missionaria con una finezza teologica maturata in anni di studio e governo ecclesiale. È un uomo di equilibrio, che ha scelto il nome Leone in omaggio non solo al riformatore del XIX secolo, Leone XIII, ma anche al pontefice che si oppose ad Attila, segno forse di una determinazione celata dietro modi gentili.
Ciò che spaventa certi ambienti conservatori non è tanto ciò che Leone XIV ha detto o fatto, ma ciò che rappresenta. L’immagine di un papa americano che non fa del nazionalismo il cuore del Vangelo, che parla ai migranti senza retorica, che difende i poveri ma si tiene lontano dalle semplificazioni ideologiche, disorienta chi ha trasformato la fede in una bandiera politica. Leone XIV non ha attaccato direttamente JD Vance, ma ha rifiutato con fermezza l’idea che l’amore cristiano debba essere ordinato secondo priorità etniche o civiche. È bastata quella frase, “Gesù non ci chiede di classificare il nostro amore per gli altri”, per aprire una frattura.
L’attuale pontefice ha votato negli Stati Uniti, tanto alle primarie democratiche quanto a quelle repubblicane. Non è un militante. È un uomo libero, che ha vissuto il Vangelo in periferia e nei centri decisionali. Ha una visione del potere come servizio, non come affermazione. In un mondo ecclesiale attraversato da polarizzazioni crescenti, questa postura centrista, sobria, ma non evasiva, è forse la qualità più radicale che possa esprimere oggi un papa.
Leone XIV non è il papa dei conservatori, né dei progressisti. È, finora, il papa della complessità. E questo non piace a chi vive di dicotomie. Per i cattolici MAGA, abituati a un’idea di Chiesa come bastione identitario contro il mondo, il pontificato di Leone sarà una sfida non teologica, ma culturale. Dovranno fare i conti con un’America cattolica che non si riconosce in slogan, ma in un’eredità più profonda, che affonda nelle viscere di New Orleans, nei vicoli di Trujillo, nelle biblioteche di Roma.
Il primo papa americano non è il papa di Trump. E proprio per questo potrebbe essere il papa che l’America non sapeva di aspettare.