
“È giunto il momento”. Con questa frase, Emmanuel Macron ha scosso la platea dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e ottenuto una standing ovation. La Francia ha riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina, definendolo un passo “storico e necessario”. Non un atto di rottura con Israele, ma un atto di verità politica: non può esserci pace senza giustizia, né sicurezza senza dignità per entrambi i popoli.
Non si tratta di un gesto isolato. Francia, Canada, Australia, Portogallo, Spagna, Belgio, Regno Unito e molti altri hanno scelto di riconoscere lo Stato palestinese, portando a oltre 140 i paesi che hanno compiuto questo passo. In altre parole: tre quarti dell’ONU, la maggioranza schiacciante della comunità internazionale, hanno deciso che l’assenza di Palestina come soggetto politico non è più sostenibile.
Le parole di Macron non sono state concilianti solo con i palestinesi. Ha condannato con forza l’attacco terroristico del 7 ottobre 2023, reso omaggio alle vittime israeliane, riaffermato il diritto di Israele alla sicurezza. Ma ha ricordato un fatto troppo spesso rimosso: la comunità internazionale, nel 1947, si impegnò a garantire due Stati. Uno esiste ed è riconosciuto da tutti, l’altro è rimasto promessa tradita.
La svolta, dunque, non sta nell’invenzione di una soluzione nuova, ma nel riallineamento alla legalità internazionale. Riconoscere la Palestina non significa negare Israele: significa rafforzare le basi per la pace, togliendo terreno al radicalismo che prolifera nel vuoto politico. Non a caso, Macron ha definito il riconoscimento una “sconfitta per Hamas”.
Ed è a questo punto che emerge il grande assente: l’Italia.
Mentre i partner europei più influenti prendono posizione, Roma resta ferma. Non un sì, non un no: silenzio. È un silenzio che pesa e che si trasforma in un atto politico di fatto. In diplomazia, non decidere equivale a scegliere: l’Italia sceglie l’immobilismo, rinuncia a esercitare un ruolo nel Mediterraneo, abdica alla sua funzione naturale di ponte tra Europa e Medio Oriente.
È un atteggiamento che rivela debolezza strategica. Francia e Spagna dettano la linea europea, il Canada e l’Australia assumono rischi politici pur di rilanciare la prospettiva dei due Stati, mentre Roma preferisce restare nell’ombra, sperando di non irritare né Tel Aviv né Washington. Ma il risultato è opposto: l’Italia si auto-esclude dai tavoli che contano, si condanna a un’irrilevanza che stride con la sua storia diplomatica.
Non è solo questione di prestigio internazionale. È questione di coerenza. Come può l’Italia proclamarsi difensore del diritto internazionale e tacere quando il diritto di un popolo a esistere come Stato viene finalmente riaffermato dalla maggioranza delle nazioni? Come può richiamarsi alla tradizione mediterranea e restare muta di fronte al dramma che scuote le sue stesse sponde?
Il tempo delle ambiguità è scaduto. Non basta condannare Hamas, né ribadire a parole l’importanza della pace. Bisogna avere il coraggio di assumere decisioni che guardino al futuro. Se davvero l’Italia vuole contribuire a una soluzione duratura, non può continuare a restare indietro mentre tre quarti del mondo avanza.
Il riconoscimento della Palestina non è la panacea, come ha ammesso il premier canadese Carney, ma è la condizione minima per riaprire uno spazio politico. Negarlo, o fingere di ignorarlo, significa consegnare il conflitto all’eterno ritorno della violenza.
Il mondo ha parlato. La Francia ha guidato. L’Italia tace. Ma nel silenzio non c’è neutralità: c’è complicità con lo status quo. E lo status quo, oggi, significa guerra senza fine.