L’ombra dei servizi e il dovere della verità

Il sospetto di spionaggio ai danni di un giornalista mette in discussione l’indipendenza dell’informazione e la trasparenza del potere

Sigfrido Ranucci

Il caso che oggi coinvolge il giornalista Sigfrido Ranucci, conduttore di Report, e il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, getta un’ombra inquietante sul rapporto tra potere politico e libertà di stampa in Italia.

Le accuse e il rischio istituzionale

Secondo quanto emerso dalle audizioni in Commissione Antimafia e in Vigilanza Rai, Ranucci avrebbe riferito di essere stato pedinato da un agente dell’Aisi dopo la messa in onda di un’inchiesta sul padre della premier Giorgia Meloni. Inchiesta che, ricordiamo, riguardava fatti di cronaca e giudiziari risalenti nel tempo, connessi a un uomo che non ha mai avuto ruoli politici o istituzionali. Eppure, la reazione, o meglio, le reazioni, successive sembrano aver superato la soglia della normale dialettica tra stampa e governo.

La violazione delle fonti come linea rossa

Se davvero un apparato dello Stato avesse cercato di scoprire le fonti di un giornalista, ci troveremmo di fronte a una violazione gravissima non solo della libertà di stampa, ma anche del principio di separazione tra potere politico e potere informativo. Perché il diritto alla riservatezza delle fonti è, in ogni democrazia matura, una pietra angolare della libertà di informazione. Senza di esso, nessun giornalista potrebbe più garantire protezione a chi denuncia abusi o corruzione. E senza quella protezione, il giornalismo d’inchiesta cesserebbe di esistere.

La scelta del silenzio e la distorsione del potere

Ranucci ha scelto di parlare a porte chiuse, chiedendo la secretazione delle audizioni. Non per timore, ma per rispetto delle istituzioni, come ha dichiarato. Eppure, quella scelta è stata interpretata dal potere politico come un segno di ambiguità, come se il silenzio fosse di per sé una colpa. È un rovesciamento del principio democratico, spetta al potere dimostrare la propria trasparenza, non al giornalista giustificare la propria prudenza.

Dalla critica alla delegittimazione

Le reazioni del sottosegretario Fazzolari, con l’annuncio di un’azione legale contro Ranucci, si inscrivono in una strategia ormai consueta, spostare il dibattito dal merito dei fatti alla legittimità del giornalista che li racconta. Non è un caso isolato. È un riflesso sempre più frequente, in Italia come altrove, di un potere politico che pretende di controllare la narrazione, trasformando la critica in lesa maestà.

Una libertà da difendere ogni giorno

Ma la libertà di stampa non è una concessione del potere. È un contrappeso al potere. È la garanzia che nessuna verità resti sepolta sotto il peso dell’autorità. Quando un giornalista viene seguito, indagato o intimidito per le sue fonti, si apre una crepa che nessuna democrazia dovrebbe tollerare.

Non sappiamo, oggi, dove stia la verità giudiziaria di questo caso. Ma sappiamo dove sta il principio, nessun governo, di qualunque colore, può anche solo sfiorare l’idea di usare gli strumenti dello Stato per individuare le fonti di un’inchiesta giornalistica. Se davvero vi sono stati abusi, essi vanno indagati a fondo, e pubblicamente.

Chi controlla chi?

In gioco non c’è la reputazione di un giornalista né l’immagine di un governo, ma la tenuta stessa del patto democratico. Perché una stampa sorvegliata non è libera, e un potere che spia chi lo osserva ha già oltrepassato il confine della democrazia.

Finché non sarà fatta piena chiarezza, ogni cittadino, non solo ogni cronista, ha il diritto di chiedersi: chi controlla chi?