“Mercurio” al Teatro Litta. La parola al regista Corrado D’Elia

Giovanna Rossi e Chiara Salvucci interpretano Francois e Hazel

Non servono grandi effetti speciali o scenografie importanti per uno spettacolo riuscito e “Mercurio”, in scena fino al 20 marzo al Teatro Litta di Milano, ne è la dimostrazione.

Giochi di luce e di musica magistralmente studiati dal regista Corrado D’Elia permettono allo spettatore di essere catapultato immediatamente su un’isola deserta, per la precisione a Morte Frontiere nel castello di If abitato dal vecchio capitano Homer Loncours (Gianni Quillico) e dalla sua pupilla Hazel (Chiara Salvucci).

Fiaba gotica

Salvata da un incendio, ormai sfigurata, la donna instaura con il capitano un rapporto morboso, in cui non è chiaro chi è la vittima e chi il carnefice.

La loro routine viene spezzata dall’arrivo dell’infermiera Françoise (Giovanna Rossi), assunta per curare la giovane che si sente afflitta da una serie di malattie, generate più che altro dall’infelicità per la propria deformità e dai sensi di colpa per quel rapporto che la inquieta.

Le due donne stringono da subito un forte legame, fatto di domande e lunghe conversazioni, che porterà a un finale inaspettato, nel classico stile di Amelie Nothomb, autrice dell’omonima opera da cui lo spettacolo è tratto.

Il regista

Dopo il successo di “Io, Steve Jobs” e “Io, Moby Dick”, il regista Corrado D’Elia torna con uno spettacolo intenso che paralizza chi lo guarda, raccontando l’ossessione, il mistero, i meandri dell’amore disperato.

Lo spettatore esce da teatro senz’altro angosciato, puntava a questo?

Senz’altro, ma desideravo anche frammentare la verità.

Amelie Nothomb scrive due finali, noi invece diamo un’ulteriore interpretazione.

Volevamo dare l’idea di qualcosa di assolutamente mentale e più si va avanti con lo spettacolo più ci si sente intrappolati, quello è un po’ il senso. Senz’altro è angosciante ma spero anche emozionante, vedere come stato costruito questo grande enigma.

Amelie Nothomb in sala

Durante la sera del debutto era presente anche Amelie Nothomb, autrice dell’opera. È rimasta soddisfatta?

Era entusiasta, continuava a dire “Génial! Génial!”

Avevo già avuto il piacere di incontrarla a Milano alla presentazione di un libro e in quell’occasione avevamo parlato. È una persona di grande sensibilità, oltre che di grande apertura: è aperta a quello che vede e ho la sensazione che restituisca ciò che vive in maniera molto diretta. L’immagine più bella che mi porto dentro della prima è quella a fine spettacolo, quando eravamo dietro le quinte, lei teneva la mano e me e agli attori, emozionata come una bambina.

Continuava dire “Facciamo una foto!” ed è poi scappata in scena, nonostante il pubblico non fosse ancora uscito completamente dalla sala. Quindi è uscita, si è seduta sul divano e ha voluto le attrici vicine a lei. È davvero come una bambina nel senso buono del termine: ha un’energia pulita e viva.
Sono molto soddisfatto di aver lavorato a questo spettacolo e a questo testo. È stato difficile pensare all’adattamento teatrale di un romanzo, però è stato vincente costruirlo con la lingua del teatro, perché se la letteratura descrive e “aggiunge”, il teatro “toglie”, questa è stata la difficoltà maggiore.

Le scelte registiche

Interessante l’utilizzo delle luci e dei suoni, quasi ipnotico, con pochi oggetti di scena.

Sì, quello che conta è che la scena sia curata, anche se semplice. Ogni volta è necessario capire qual è l’elemento chiave, può essere la luce, l’acqua, magari il fuoco. In questo caso, l’elemento è il mistero, quindi la sala rappresentata è una delle mille sale del castello, e basta cambiare il colore di una luce per regalare tutta un’altra atmosfera.

Che poi è un po’ questo il senso del teatro: basta cambiare una parola o un suono per trasportarci da tutt’altra parte, anche nella semplicità.

Gli attori

Com’è stato dirigere Chiara Salvucci, Giovanna Rossi e Gianni Quillico? 

Sono davvero strepitosi: rimanere nella tensione del dialogo del personaggio apparendo e scomparendo dalla scena, nel buio più totale, è veramente difficile.
Il linguaggio adottato è bagnato di teatro ma è anche cinematografico, come anche la recitazione degli attori, che non è “portata” come invece è solitamente in teatro.

L’atmosfera durante le prove era serena, avevano tutti grande desiderio di portare in scena “Mercurio”.
Chiara (Salvucci, ndr.) ha questa energia pura, un fiume in piena, aspetti che si vedono anche nel suo personaggio, che batte i piedi e salta continuamente. Giovanna (Rossi, ndr.) è felicissima di poter interpretare questo ruolo e anche Gianni (Quillico, ndr.) che ha rinunciato ad altri lavori per poter essere in scena con noi. Abbiamo respirato grande armonia e ne sono proprio contento.

Il capitano Homer Loncours interpretato da Gianni Quillico in "Mercurio" al Teatro Litta di Milano
Il capitano Homer Loncours interpretato da Gianni Quillico in “Mercurio” al Teatro Litta di Milano

“…Quando si ama veramente qualcuno non ci si può impedire di fargli del male…”. La frase scritta da Nothomb nel libro e riproposta durante lo spettacolo ha un fondo di verità?

Non riesco a trarne una frase così dogmatica, però alla fine è così: mentre noi viviamo, qualcun altro, metaforicamente, muore o viene ferito, questo succede ogni giorno, a causa delle nostre azioni o delle nostre parole. Proviamo a fare il bene, ma capita anche di fare il male.

Anche nel mondo teatrale funziona così?

Fare teatro è un lavoro complicato perché, come tanti altri, è un lavoro faticoso e spesso accade che lavorando molto gli altri passino in secondo piano oppure che si sfaldino dei rapporti. In scena si vede lo spettacolo di un’ora, la punta dell’iceberg, ma dietro c’è un lavoro immenso di pensiero, di confronto, oltre al lavoro dei tecnici, categoria spesso dimenticata, ma senza i quali non ci sarebbe spettacolo. Io ho pensato alla musica e alle luci, ma poi mettersi lì a farlo, concretamente, richiede abilità e sensibilità. C’è dietro davvero un grande lavoro che porta via la giornata. Fare l’artista è un privilegio, ma a un certo punto la tua vita finisce per coincidere con l’arte, e a volte anche se sei fermo, lei, la tua arte ti porta e sceglie la strada per te.

I prossimi progetti

Ha già in serbo qualcosa per i prossimi mesi?

Mi sto dedicando a diversi progetti. Sto scrivendo un lavoro voluto da un comune della Liguria che mi ha chiesto di cantare questa città, quindi vado nei bar e in altri posti per ascoltare i racconti: è nato questo testo che porterò in scena a giugno.

“Io, Moby Dick” è appena finito, mentre “Io, Steve Jobs” ha ancora qualche data e stiamo preparando il ritorno, entro la fine dell’anno, i due grandi spettacoli.

Uno è il “Cirano di Bergerac”, al Teatro Leonardo e l’altro sarà “900” di Baricco che dovrebbe tornare in ottobre a Milano al Teatro Litta. Nel frattempo, mi dedico alla scrittura di nuovi “album” (spettacoli della sua compagnia, ndr.) e di tre libri in contemporanea. Il momento della scrittura è bellissimo perché ti consente di immergerti in te stesso e trovare la strada. Quando fai l’attore o il regista, sei spesso con gli altri, devi fare pubbliche relazioni, partecipare a pranzi e cene, invece il momento della scrittura è quello in cui il campo rimane a maggese e sta fermo un attimo. Ed effettivamente, lì ritrovi te stesso.

 

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