
Nel caso Almasri, Giorgia Meloni ha smesso di essere presidente del Consiglio e ha scelto di essere semplicemente capo fazione. Anziché chiarire, ha protetto. Anziché riferire, ha coperto. Anziché assumersi la responsabilità politica di una decisione che ha visto lo Stato italiano liberare un torturatore ricercato per crimini contro l’umanità, ha preferito attaccare i giudici che, pur archiviandola, le hanno contestato la mancata trasparenza.
L’archiviazione disposta dal Tribunale dei ministri, infatti, non assolve Meloni sul piano politico. Al contrario, conferma un fatto: la premier era “sicuramente informata” della vicenda, ma, secondo i giudici, non esistono elementi documentali per provare una sua partecipazione diretta alla fase decisionale. Una conclusione giuridica che lascia però intatta la responsabilità politica di chi guida il governo.
Meloni non solo non ha smentito la sua conoscenza dei fatti: l’ha rivendicata. Ha dichiarato pubblicamente che la scelta di liberare e rimpatriare il generale Osama Almasri è stata condivisa e concordata “con tutto l’esecutivo”, affermando che “questo governo agisce in modo coeso sotto la mia guida”. È quindi legittimo chiedere: se davvero Meloni ha approvato quella decisione, perché ha taciuto per mesi? Perché non ha riferito in Parlamento? Perché ha lasciato che fossero i suoi ministri a esporsi, in particolare Nordio, oggi accusato di omissioni e favoreggiamento, senza mai chiarire il proprio ruolo in aula?
La verità è che Meloni ha scelto di non dire la verità. Ha preferito blindare politicamente i suoi ministri, sacrificando la trasparenza dovuta ai cittadini e ai partner internazionali. Ha scelto il silenzio strategico, pensando che bastasse la forza dei numeri in Parlamento per superare anche questa tempesta.
Ma il punto non è il destino giudiziario di Nordio, Piantedosi o Mantovano, sul quale interverrà probabilmente la maggioranza con un voto scontato. Il punto è che un governo che si proclama “coeso” non può essere al tempo stesso irresponsabile. Non può decidere di far rientrare in Libia, su un volo di Stato, un uomo accusato di crimini contro l’umanità, eludendo un mandato della Corte penale internazionale, e poi fingere che tutto sia avvenuto per caso, senza alcun coordinamento politico.
Se Meloni ha davvero autorizzato quella scelta, ha il dovere di dirlo al Parlamento. Se invece non ne sapeva nulla, la sua leadership è fittizia, e il potere reale risiede altrove. In entrambi i casi, il quadro che emerge è quello di un esecutivo opaco, refrattario al diritto internazionale e allergico alla responsabilità istituzionale.
Il caso Almasri ha mostrato un governo che parla di sovranità ma agisce fuori dal diritto. E una presidente del Consiglio che, davanti a una delle vicende più gravi della recente storia repubblicana, ha scelto la lealtà di partito al posto della verità pubblica.
Questa non è forza, è debolezza mascherata da disciplina. Non è coesione, è complicità. Non è leadership, è la rinuncia consapevole al dovere più alto di chi guida un Paese democratico, rispondere delle proprie scelte, davanti ai cittadini e davanti alla legge.