Quando Londra osa e Roma tace

Il riconoscimento della Palestina da parte di tre alleati di Washington segna una svolta. L’Italia si rifugia nell’ambiguità

Keir Starmer - Giorgia Meloni

Il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di Regno Unito, Australia e Canada segna un passaggio di forte valenza politica e morale. Non cambia, nell’immediato, la condizione sul terreno: la Cisgiordania resta occupata, Gaza martoriata da una guerra devastante e l’Autorità palestinese priva di reale sovranità. Eppure, il peso simbolico di questa decisione è enorme. Tre Paesi storicamente vicini a Washington, e nel caso britannico, con responsabilità storiche dirette per la frattura mediorientale, hanno scelto di rompere un equilibrio ormai sterile, riaffermando la necessità della soluzione a due Stati.

Chi riconosce la Palestina

Oggi circa tre quarti dei membri delle Nazioni Unite hanno riconosciuto la Palestina. Lo hanno fatto da tempo Cina e Russia, così come gran parte del Sud globale. All’ONU la Palestina gode dello status di osservatore permanente. Ora, con la mossa di Londra, Canberra e Ottawa, si aggiunge una nuova legittimazione: per la prima volta, tre alleati strettissimi degli Stati Uniti si schierano apertamente a favore di uno Stato palestinese. Presto potrebbe unirsi la Francia, altro membro permanente del Consiglio di Sicurezza. In tal modo, quattro su cinque grandi potenze dell’ONU sosterranno formalmente l’esistenza di uno Stato palestinese. Isolando così gli Stati Uniti, unico Paese del “club dei cinque” a rifiutare il riconoscimento, in piena sintonia con la linea intransigente di Benjamin Netanyahu.

La reazione di Israele e gli interessi americani

La reazione israeliana era prevedibile. Per Netanyahu e i suoi ministri, riconoscere la Palestina equivale a premiare il terrorismo di Hamas. Ma questa retorica, ripetuta ossessivamente, confonde Hamas con l’intero popolo palestinese e riduce la questione politica a un problema di sicurezza. Il timore americano, rilanciato dal segretario di Stato Marco Rubio, è che questi riconoscimenti internazionali possano spingere Israele a rispondere con nuove annessioni unilaterali in Cisgiordania. Una minaccia che non è affatto teorica: già lo scorso agosto il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich aveva rivendicato l’approvazione definitiva del progetto di insediamento “E1”, che taglierebbe in due la Cisgiordania, rendendo impraticabile la nascita di uno Stato palestinese.

Un principio da riaffermare

La verità è che la soluzione a due Stati è ormai un guscio svuotato dalla politica dei fatti compiuti di Israele. Ma proprio per questo, i riconoscimenti di Londra, Canberra e Ottawa hanno un significato: rimettono al centro il principio che i palestinesi non sono un “problema” ma un popolo con diritto a uno Stato.

L’ambiguità italiana

E l’Italia? Roma sceglie di restare silenziosa. Il governo italiano non vuole irritare Netanyahu, né tantomeno contrariare Donald Trump, tornato alla Casa Bianca e determinato a blindare il rapporto privilegiato con Israele. Così, mentre Paesi alleati e comparabili per peso geopolitico prendono una posizione netta, l’Italia si rifugia nell’ambiguità. Invoca la pace, ma non riconosce lo Stato di Palestina. Difende la “soluzione a due Stati”, ma si rifiuta di compiere il gesto politico che le darebbe sostanza.

Un’irrilevanza scelta

È una scelta che rivela debolezza, non prudenza. Perché non riconoscere la Palestina non avvicina la pace: al contrario, lascia campo libero alla linea dura di Israele e conferma la subalternità italiana a Washington. L’Italia, culla del diritto internazionale e firmataria di tutti i trattati sulla dignità dei popoli, sceglie di non scegliere.

Il tempo dirà se la mossa di Regno Unito, Australia e Canada aprirà un varco concreto o resterà un gesto simbolico. Di certo, sul piano politico, segna un punto di svolta: gli alleati più fedeli degli Stati Uniti hanno osato discostarsi. L’Italia, invece, resta ferma al palo. E in questo immobilismo rivela tutta la sua irrilevanza nello scacchiere internazionale.