Lavoro giovanile in Italia 2025: tra precarietà e fuga di talenti

Lavoro giovanile

Benvenuti in Italia, dove studiare non basta e lavorare è una conquista. Il mondo del lavoro giovanile appare sempre più una corsa a ostacoli: stage gratuiti, contratti “formativi” che formano poco, stipendi ridotti all’osso e nessuna certezza. Il risultato? Talenti in fuga e un Paese che investe nella formazione per poi regalare i suoi laureati al resto d’Europa.

Stage curricolari: quando lavorare gratis è la norma

Cominciamo dal primo passo. I tirocini curricolari – quelli previsti all’interno dei percorsi universitari – non prevedono per legge alcuna retribuzione. Nessun compenso, nessuna contribuzione, e spesso nemmeno una vera formazione. Sono esperienze obbligatorie, ma quasi mai strutturate. In troppe aziende diventano un modo legale per avere forza lavoro gratuita.

Per gli stage extracurriculari, le cose non vanno molto meglio. Secondo Indeed, la retribuzione media si aggira attorno ai 638 euro al mese, ma con differenze enormi: si va dai 300 euro mensili in Sicilia ai 600/800 euro nel Lazio e in Lombardia, con tanti giovani che si barcamenano tra fotocopie e slide Power Point, sperando in un contratto che quasi mai arriva.

Il paradosso? Più sei qualificato, più ti offrono stage anziché contratti. E se non accetti, sei fuori.

Apprendistato: l’occasione mancata del lavoro giovanile

L’apprendistato dovrebbe essere la risposta: un contratto che promette lavoro, formazione e carriera. Ma per tanti giovani si trasforma in una scatola vuota.

Il motivo? Lo stipendio di partenza è basso: nel primo anno l’apprendista guadagna anche il 20-30% in meno rispetto a un lavoratore ordinario. Nel secondo anno, la retribuzione resta comunque ridotta del 10-20%. Solo alla fine, se tutto fila liscio, si arriva a una paga dignitosa.

Il problema è che in molti casi la formazione resta solo sulla carta, mentre le aziende sfruttano gli incentivi fiscali, come l’esonero contributivo totale nei primi due anni, per abbattere i costi. E quando gli sgravi finiscono? Spesso finisce anche il contratto. Nessuna stabilizzazione, nessun avanzamento. E il ciclo ricomincia, con un altro apprendista da pagare poco.

Invece di costruire percorsi professionali a sostegno della crescita del lavoro giovanile, l’apprendistato rischia di diventare un sistema rotativo di precarietà agevolata.

Disoccupazione giovanile: il dato che non migliora mai davvero

Secondo l’ISTAT, ad aprile 2025 la disoccupazione giovanile (15-24 anni) è al 19,2%, in calo rispetto al mese precedente ma ancora altissima. In alcune regioni del Sud, supera ampiamente il 30%.

Non si tratta di un’emergenza passeggera, ma di una costante italiana. Da anni, l’Italia è tra gli ultimi in Europa per occupazione giovanile. E non è solo una questione di numeri: è un problema di fiducia, di mobilità sociale, di visione del futuro.

Per molti giovani, il passaggio dallo studio al lavoro è una lunga attesa fatta di contratti brevi, lavori sottopagati, o peggio: nulla.

Fuga di cervelli: investimento perso, talento regalato

Ed è proprio qui che si inserisce la grande emorragia del capitale umano italiano. Tra il 2011 e il 2023, oltre 550.000 giovani tra i 18 e i 34 anni hanno lasciato l’Italia. Più della metà sono laureati, spesso formati in università pubbliche, con costi coperti dallo Stato.

Secondo l’ISTAT, solo tra il 2013 e il 2022, 352.000 laureati under 35 sono emigrati. Il costo per le casse pubbliche? Circa 134 miliardi di euro in capitale umano perduto (dato Fondazione Nord Est). Un paradosso tutto italiano: formiamo medici, ingegneri, data analyst… e poi li spediamo gratis in Germania, Francia, Regno Unito, Svizzera.

Il motivo è semplice: all’estero trovano stipendi più alti, carriere più meritocratiche e un futuro più stabile. In Italia, invece, un neolaureato guadagna in media 1.330–1.370 euro netti al mese, quando va bene.

Lavoro giovanile: il bivio di una generazione

Stage gratuiti, apprendistati a basso costo, disoccupazione cronica, fuga di cervelli. Non è solo un elenco di problemi, è una diagnosi chiara: l’Italia non riesce a trattenere e valorizzare i suoi giovani. Li forma, li sfrutta o li ignora. E poi li perde.

Eppure, la soluzione esiste: regolamentare meglio i tirocini, controllare l’efficacia reale degli apprendistati, investire seriamente nei settori ad alto contenuto di conoscenza, premiare le assunzioni stabili, collegare davvero università e impresa.

La vera sfida non è solo aumentare il lavoro giovanile, ma farli sentire parte di un progetto collettivo. Perché se una generazione perde fiducia, a perderci non è solo lei. A perderci è l’intero Paese.