
Donald Trump torna a minacciare la Russia, e Mosca, più che spaventarsi, si mette a ridere. Con un’immagine generata dall’intelligenza artificiale, l’agenzia statale russa Ria Novosti ha ritratto uno Zio Sam disperato che spara bolle di sapone con una pistola giocattolo: una risposta visiva e simbolica alle “severe sanzioni” minacciate da Trump se non verrà raggiunto un accordo “entro 50 giorni”.
L’intento è chiaro: la Russia non prende sul serio le minacce statunitensi. O meglio, non prende più sul serio le minacce di Donald Trump. E, a ben vedere, ha buoni motivi per farlo. Da tempo, la politica estera americana oscillante e incoerente, fatta di proclami roboanti seguiti da repentini cambi di rotta, ha svuotato di credibilità la postura internazionale di Washington. Oggi promette armi a Kiev, domani sospende gli aiuti, dopodomani li riattiva, purché sia l’Europa a pagarli. Intanto, il Pentagono annaspa, la diplomazia arranca, e l’unico messaggio chiaro che passa è che l’America non sa più cosa vuole.
Trump, dal canto suo, prova a recitare la parte dell’uomo forte: pone ultimatum, promette “punizioni” esemplari, ma lo fa da una posizione di debolezza diplomatica. Mosca lo sa e se ne approfitta. La risposta russa non è più quella dell’ira o della tensione, ma dello sberleffo: il sarcasmo è l’arma più letale quando si vuole umiliare un avversario. “La montagna ha partorito un topolino inoffensivo”, scrive il canale Telegram Rybar, commentando la politica americana come un riflesso pavloviano, sempre prevedibile, sempre inefficace.
Non è solo propaganda. Le parole di Peskov e del vicepresidente della Commissione Difesa Zhuravlev vanno dritte al punto: Washington non ha più strumenti reali per piegare Mosca. Il commercio bilaterale è ormai minimo, le sanzioni hanno perso il loro potere deterrente, e le grandi potenze asiatiche, India e Cina, continuano a fare affari con il Cremlino, ignorando gli avvertimenti americani. A chi dovrebbe far paura, dunque, un dazio del 500% minacciato da un presidente in cerca di riscatto esistenziale?
La vicenda ucraina resta tragica, ma nella narrazione russa assume tratti di farsa geopolitica: ogni apertura negoziale è seguita da un attacco più feroce, ogni telefonata con Washington è una trappola semantica. Così è stato anche il 4 luglio, quando Mosca ha colpito Kiev mentre gli Stati Uniti celebravano la loro indipendenza. Un messaggio chiaro: la Russia non rispetta le pause simboliche, non crede nei rituali diplomatici, e non teme la retorica americana.
La figuraccia è tutta di Trump, che alterna giudizi sconcertanti, “Putin è gentile ma dice solo stronzate”, a tentativi di controllo che scivolano via come le bolle di sapone sparate da uno Zio Sam impotente.
In questa guerra di nervi, l’immagine conta quanto la strategia. E Mosca lo ha capito meglio di Washington: oggi, più che i missili, fanno effetto le caricature. Perché il potere non è solo forza militare o influenza economica: è credibilità. E quella, Donald Trump, l’ha persa da tempo.