La Cina fa paura. La forza e la bottiglia USA di Trump

Cinquant’anni dopo l’apertura di Nixon, il Tycoon riporta la Cina nella sua narrazione del potere: “Rispetta solo la forza”. Tra dazi record e diplomazia muscolare, l’America cerca la formula perduta

Il 17 ottobre, sotto le luci degli studi di Fox News Live, Donald Trump ha pronunciato parole che hanno attraversato il Pacifico come una scossa diplomatica: la Cina, ha detto, è “un avversario molto forte per gli Stati Uniti” e “rispetta solo la forza”. Il tono era quello consueto, diretto e senza filtri. “Questo tema, sapete, è molto complesso – ha sottolineato il Tycoon – Ma la Cina ci deruba fin dal primo giorno. E, sapete, Richard Nixon, è stato lui a permettere che accadesse. È lui che ha aperto la Cina. E io mi chiedo: è stato un bene o un male? Ditemelo voi. Lui ha liberato il genio dalla bottiglia. Ora abbiamo un avversario molto potente, e loro rispettano solo la forza”.

Quelle frasi, rimbalzate in poche ore da Fox News ad altre numerose testate giornalistiche, hanno riacceso una discussione che va ben oltre la tattica elettorale: la relazione fra Washington e Pechino, il lascito di Nixon e la nuova stagione della rivalità globale.

Trump parla di Nixon per riferirsi ad un passato che sembrerebbe molto attuale. Nel 1972, Richard Nixon varcò, per la prima volta, la soglia della Cina comunista, aprendo un canale che avrebbe ridisegnato l’equilibrio mondiale. Il suo viaggio a Pechino e il Comunicato di Shanghai segnarono l’inizio della normalizzazione dei rapporti tra le due potenze, completata solo nel 1979.

Fu una mossa epocale, che pose fine a decenni d’isolamento cinese. Ma nelle parole di Trump quell’apertura assume oggi un significato quasi mitologico: Nixon, “liberando il genio dalla bottiglia”, avrebbe scatenato una potenza destinata a sfidare la leadership americana.

Trump non fa storia accademica: costruisce un racconto. E nel suo racconto, la Cina non è più solo un concorrente commerciale, ma il simbolo di una forza risvegliata, che rispetta soltanto chi mostra i muscoli.

Dietro la retorica, c’è la realtà di una guerra economica mai davvero finita. Sempre in un’intervista a Fox, il Tycoon ha confermato che le tariffe complessive sui prodotti cinesi hanno raggiunto un livello record: fino al 157%. Poi ha aggiunto, con tono che parrebbe quasi rassegnato: “Non è sostenibile, ma questo è il numero”.

Un’ammissione di peso. Il Presidente degli Stati Uniti sa che quei dazi non possono durare all’infinito. Ma li usa come leva. “Mi hanno costretto a farlo”, ha detto a Fox News, rievocando il classico schema del suo linguaggio politico: l’America costretta a reagire, spinta da un rivale sleale.

Secondo quanto riportato da The Independent e AP News, Trump avrebbe innalzato le tariffe di un ulteriore 100% dopo che Pechino aveva esteso i controlli sulle esportazioni di terre rare, indispensabili per smartphone, veicoli elettrici e jet militari. “Ci hanno minacciati con le terre rare, e io li ho minacciati con i dazi”, ha spiegato, lasciando intendere che le mosse economiche sono ormai un campo di battaglia a tutti gli effetti.

Eppure, tra una minaccia e l’altra, emerge un barlume di negoziato. “Penso che alla fine con la Cina raggiungeremo un accordo fantastico”, ha detto Trump all’agenzia AP, durante un incontro alla Casa Bianca con il primo ministro australiano Anthony Albanese. “Sarà un grande accordo commerciale. Sarà fantastico per entrambi i Paesi e sarà fantastico per il mondo intero”.

La promessa di un accordo “fantastico” convive però con la minaccia di nuove sanzioni: “Se non faranno un accordo equo, potremo raddoppiare di nuovo i dazi”. Trump gioca dunque su due registri opposti: quello della forza e quello del compromesso. Il risultato? Una tensione continua, che tiene Pechino sotto pressione e l’opinione pubblica americana in attesa di una vittoria simbolica.

Ma la “forza” evocata da Trump non è solo economica. È anche militare, industriale, tecnologica. Come ha raccontato il Financial Times, accanto al premier australiano Anthony Albanese, il presidente ha rilanciato con toni entusiastici l’alleanza AUKUS: “Abbiamo lavorato a lungo e con impegno su questo progetto… sta davvero procedendo molto rapidamente e molto bene”. Un progetto trilaterale – con Regno Unito e Australia – che prevede la fornitura di sottomarini a propulsione nucleare a Canberra. Un segnale di deterrenza verso la Cina nel cuore dell’Indo-Pacifico.

Nello stesso incontro, i due leader hanno firmato un accordo strategico sulle terre rare: ciascun Paese investirà almeno un miliardo di dollari in progetti di estrazione e raffinazione per ridurre la dipendenza da Pechino. Le azioni delle società australiane coinvolte – come Arafura Natural Resources e Alcoa – sono schizzate in poche ore. Trump, seduto accanto a Albanese, ha tagliato corto: “Adesso stiamo semplicemente andando avanti a tutta velocità”.

L’intesa è più di un accordo economico. È una mossa geopolitica. Le terre rare, oggi, sono la nuova frontiera del potere: chi le controlla, controlla il futuro tecnologico.

Tutti gli occhi ora sono puntati sull’incontro tra Trump e Xi Jinping, previsto a Seul in occasione del vertice APEC del 29 ottobre. Secondo AP, il presidente americano è convinto che Pechino “Si siederà al tavolo e concluderà un accordo molto equo”. Ma il dossier più delicato resta Taiwan. Trump, pur mantenendo il riserbo, ha ammesso che l’isola potrebbe essere “uno dei temi” in discussione. A Taipei cresce la preoccupazione che un accordo commerciale troppo favorevole a Pechino possa intaccare la storica posizione di sostegno americana.

Le dichiarazioni di Trump non sono una semplice provocazione: rivelano la filosofia che guida la sua politica estera. Nella sua visione, la forza non è soltanto militare, ma simbolica: rappresenta la capacità dell’America di imporsi come potenza che detta le regole del gioco. Quando sostiene che “la Cina rispetta solo la forza”, intende che il rispetto si conquista mostrando determinazione, non diplomazia. Ma nel suo linguaggio c’è anche un doppio fondo: la “forza” serve per negoziare, non necessariamente per colpire.

Il paradosso è evidente: mentre alza i toni contro Pechino, Trump non smette di ribadire di avere “un ottimo rapporto” con Xi Jinping, che definisce “un leader molto forte, un uomo davvero straordinario”. Il rispetto reciproco diventa così parte del copione di una rivalità che ha bisogno di essere esibita per mantenere equilibrio.

Cinquantatré anni dopo la storica stretta di mano tra Nixon e Mao Zedong, l’America si ritrova a interrogarsi sul prezzo di quell’apertura. Trump ne offre una lettura brutale, ma non priva di logica politica: la Cina che oggi sfida l’Occidente è, in fondo, la creatura di quel gesto. Eppure, tra tariffe e trattative, AUKUS e terre rare, resta un filo sottile che lega passato e futuro. L’America di Trump continua a cercare la formula magica che Nixon credeva di aver trovato: dialogare senza cedere, collaborare senza perdere, aprire senza disarmare.

Il genio, però, è davvero uscito dalla bottiglia. E oggi, nel grande gioco del potere globale, nessuno sembrerebbe più in grado di rimetterlo dentro.

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