 
L’assedio di Gaza City ha ormai assunto i contorni di una tragedia epocale. Le cifre diffuse dall’IDF parlano da sole: oltre 320.000 persone hanno già abbandonato le proprie case, spinte verso sud da bombardamenti incessanti e dall’avanzata dei mezzi corazzati israeliani. Migliaia si sono riversate nelle strade soltanto nelle ultime ore, lasciando alle spalle una città che rischia di trasformarsi in un campo di rovine. Ma ciò che più colpisce non è solo l’impatto umano immediato, quanto la cinica proiezione del futuro che alcuni membri del governo israeliano hanno già formulato.
Non strutture umanitarie ma quartieri di lusso
Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza e simbolo dell’ala messianica dell’esecutivo, ha dichiarato senza esitazione che a Gaza, una volta “conquistata”, sorgeranno quartieri di lusso per i poliziotti israeliani, con vista sul mare. Non rifugi temporanei per i palestinesi in fuga, non infrastrutture umanitarie per affrontare l’esodo biblico di centinaia di migliaia di civili, ma resort e insediamenti. Una pianificazione coloniale annunciata mentre le famiglie palestinesi dormono nelle tende o si accalcano in scuole e moschee trasformate in ripari di fortuna.
Questa visione non è solo crudele, è rivelatrice: l’esodo non viene percepito come un disastro, bensì come un’opportunità. È la prosecuzione di un progetto che considera lo sradicamento del popolo palestinese non un effetto collaterale, ma un fine politico. La memoria storica del Medio Oriente ci insegna che le espulsioni di massa non si cancellano: lasciano cicatrici che attraversano generazioni e alimentano conflitti senza fine.
L’attacco a Doha
Ma mentre la tragedia si consuma a Gaza, un altro fronte di crisi si apre e rischia di ridisegnare l’equilibrio regionale. L’attacco missilistico israeliano del 9 settembre contro obiettivi di Hamas a Doha rappresenta un salto di qualità nelle dinamiche della guerra. Non si è trattato di un raid nella Striscia, ma di un bombardamento su uno Stato sovrano, il Qatar, che peraltro ospitava negoziati mediati con la conoscenza, e la presunta tolleranza, dello stesso governo israeliano. Sei morti e un messaggio inequivocabile: nessun terreno è sacro, neppure quello della diplomazia.
La reazione della Lega Araba non si è fatta attendere. Il segretario generale Ahmed Aboul Gheit ha denunciato il crimine come conseguenza diretta del “silenzio internazionale” e il premier qatarino Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani ha parlato senza mezzi termini di “terrorismo di Stato”. La convocazione urgente di un vertice a Doha, con la partecipazione dei principali leader arabi e islamici, dimostra che la misura è colma. Israele, per la prima volta dopo anni di relative aperture con diversi Paesi del Golfo, si trova davanti a un fronte compatto e indignato.
Nessuna Capitale mediorientale è al sicuro
Il segnale è chiaro: l’attacco a Doha non è stato letto come un episodio militare isolato, ma come un atto di arroganza che mina il principio stesso della sovranità nazionale. Se un Paese può bombardare un altro durante colloqui ufficiali, con la consapevolezza che la comunità internazionale non andrà oltre dichiarazioni di circostanza, allora nessuna capitale mediorientale può sentirsi al sicuro.
Così due dinamiche, apparentemente distinte, si intrecciano. Da una parte l’esodo palestinese, usato come strumento politico per ridisegnare la geografia umana di Gaza; dall’altra la sfida lanciata da Israele all’ordine regionale con un atto di guerra su territorio straniero. Entrambe testimoniano una logica che riduce la vita umana e la sovranità statale a ostacoli sacrificabili.
Il fallimento del diritto internazionale
Di fronte a ciò, le cancellerie occidentali appaiono paralizzate, più attente a bilanciare alleanze strategiche che a difendere principi universali. Eppure la posta in gioco non riguarda soltanto Gaza o Doha, ma la credibilità stessa del diritto internazionale. Se l’esodo diventa preludio a un progetto immobiliare e il bombardamento di uno Stato sovrano si normalizza, allora il futuro del Medio Oriente rischia di essere scritto non dalla politica, ma dall’impunità.

 
		 
		