L’Eurovision Song Contest, nato nel 1956 per suturare le fratture di un continente ferito dalla guerra, è diventato negli anni una fragile liturgia di neutralità culturale. Una neutralità spesso proclamata, raramente rispettata. L’ultima decisione dell’Unione Europea di Radiodiffusione (EBU), confermare la partecipazione di Israele nel 2026 nonostante le accuse di interferenze nel voto e, soprattutto, le devastanti conseguenze della guerra a Gaza, mette a nudo ciò che molti fingono di non vedere: l’Europa applica criteri diversi a seconda del paese coinvolto.
Nel 2022 la Russia venne espulsa dal concorso in meno di 48 ore dall’invasione dell’Ucraina. Una decisione netta, simbolica, presentata come un dovere morale. Oggi, di fronte a un bilancio di oltre 70.000 palestinesi uccisi secondo le autorità sanitarie locali, e a una crisi umanitaria che ha sconvolto la coscienza globale, l’EBU sceglie invece la via opposta, Israele resta in gara. E non solo. La votazione interna, lungi dal discutere seriamente la richiesta di esclusione avanzata da più delegazioni, si concentra su riforme tecniche per «rafforzare la neutralità del voto».
La neutralità, appunto. Una parola che diventa scudo quando fa comodo, brandita solo contro alcuni attori geopolitici e accuratamente riposta quando rischia di disturbare equilibri politici più sensibili.
Il fronte del boicottaggio: l’Europa che non ci sta
La decisione dell’EBU ha immediatamente aperto una faglia politica. Quattro Paesi hanno annunciato il proprio ritiro:
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Spagna, con RTVE che rifiuta sia la partecipazione sia la trasmissione dell’evento, denunciando la politicizzazione crescente operata da Israele.
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Irlanda, per cui la presenza di Tel Aviv è «moralmente inaccettabile» alla luce della “terribile perdita di vite umane a Gaza” e dell’impossibilità per i giornalisti di operare nell’enclave.
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Paesi Bassi, che parlano apertamente di una incompatibilità tra la partecipazione e i «valori pubblici» del servizio radiotelevisivo.
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Slovenia, che dedica il proprio ritiro “ai 20.000 bambini uccisi a Gaza”.
Una scelta senza precedenti nel mondo eurovisivo recente. Non è attivismo di facciata, è una presa di posizione contro un sistema di regole che sta mostrando la propria selettività politica.
Chi difende Israele, chi difende la regola
Se da una parte cresce il fronte del boicottaggio, dall’altra emerge una difesa a oltranza della presenza israeliana. La Germania si schiera con una posizione diametralmente opposta, Berlino minaccia il ritiro solo nel caso in cui Israele venisse escluso. «Israele appartiene all’Eurovision Song Contest», afferma il ministro della Cultura Wolfram Weimer, in una dichiarazione che non è solo culturale ma squisitamente politica.
Tra sostegni impliciti, timori diplomatici e pressioni interne, si compone così un mosaico europeo incoerente, specchio delle fratture che attraversano anche le istituzioni dell’Unione.
Russia fuori, Israele dentro: la neutralità che non esiste
Ciò che emerge con chiarezza è la doppia morale.
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Per la Russia, l’argomento era semplice: un Paese in guerra non può partecipare.
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Per Israele, il discorso viene capovolto: la sua esclusione sarebbe “politica”, e dunque da evitare.
L’EBU, che espulse Mosca per difendere valori europei, oggi invoca regole tecniche per evitare di prendere posizione. Ma rifiutarsi di scegliere è, anch’esso, una scelta politica. Una scelta che oggi appare in contraddizione con i principi di equidistanza che l’organizzazione dichiara di voler difendere.
La neutralità non è un’assenza di giudizio, è l’arte di stabilire quali conflitti meritano indignazione e quali possono essere trasformati in rumore di fondo.
L’Eurovision come specchio dell’Europa
La vicenda Eurovision 2026 non riguarda solo un concorso musicale, è un barometro del clima politico europeo. L’idea che la cultura possa restare “separata” dalla tragedia che si consuma a Gaza è una finzione conveniente, utile solo finché non disturba gli equilibri internazionali più sensibili.
Il boicottaggio di Spagna, Irlanda, Olanda e Slovenia rappresenta un tentativo di riportare coerenza in questo panorama. Ma la frattura è aperta. In un’Europa che fatica a parlare con una sola voce, anche un palco pop può trasformarsi nella cartina di tornasole delle sue contraddizioni.
