Un incubo collettivo: come molti americani vedono Trump 2.0

Un editoriale che raccoglie il giudizio severo e crescente di gran parte dell’elettorato americano

«È un fottuto incubo». La frase, urlata da una sconosciuta su un marciapiede all’inizio di Trump 2.0, ha il tono della disperazione, ma anche quello di una diagnosi collettiva. Per molti americani, l’attuale presidenza di Donald Trump non è solo un cattivo governo, è la rivelazione brutale di una crisi che covava da decenni.

La storia degli Stati Uniti suggerisce che, a volte, serve un trauma visibile per rompere l’indifferenza. Martin Luther King Jr. capì che la nazione doveva vedere l’orrore della segregazione per reagire, corpi neri pacifici picchiati, arrestati, umiliati davanti alle telecamere. Senza quella esposizione dolorosa, non sarebbe mai maturato il consenso per le grandi riforme sui diritti civili.

Oggi, l’“incubo” ha un nome e un volto. Trump si mostra senza filtri, crudele per istinto, ossessivamente narcisista, incapace di empatia persino davanti a tragedie personali, pronto a usare immagini e propaganda, ora amplificate dall’IA, per trasformare il dissenso in un nemico interno. Mente sui prezzi mentre le famiglie sentono l’inflazione alla cassa del supermercato. Attacca i critici, smantella pezzi dello Stato, normalizza razzismo e misoginia. È il neofascismo non più travestito da provocazione, ma esercitato come metodo di governo.

Eppure, proprio questa esposizione totale sta producendo una reazione. L’indignazione è cresciuta. Milioni di persone sono scese in piazza; elezioni speciali e amministrative hanno visto sconfitte ripetute del trumpismo, anche in territori conservatori. Il movimento MAGA mostra crepe evidenti, mentre i sondaggi del presidente calano. Non è l’America intera, certo, ma è una maggioranza che si muove.

Questo risveglio non nasce nel vuoto. Per quarant’anni, dagli anni di Ronald Reagan in poi, un’élite economica ristretta ha accumulato ricchezza e potere, deregolamentazione, privatizzazioni, finanza predatoria, sindacati indeboliti, monopoli, salari stagnanti. La classe media, un tempo la più grande e dinamica al mondo, si è assottigliata. I CEO sono passati dal guadagnare venti volte i loro dipendenti a trecento. La politica è diventata ostaggio dei grandi donatori. Anche sotto presidenti democratici, questa decomposizione strutturale non si è fermata.

Trump non ha creato questo sistema. Lo ha portato all’estremo, costringendo il Paese a guardarsi allo specchio. Ha rivelato anche la viltà di troppi “leader”, amministratori delegati, miliardari, banchieri, magnati dei media e della tecnologia, pronti ad adularlo o a tacere pur di proteggere i propri interessi. La cosiddetta leadership americana appare, agli occhi di molti cittadini, come una farsa autoreferenziale.

L’incubo non è finito. Potrebbe peggiorare, soprattutto se chi governa penserà di avere poco tempo per saccheggiare e distruggere senza freni. Ma la convinzione che serpeggia tra molti americani è altrettanto chiara, come altre disgrazie prima, anche questa passerà. Non per inerzia, ma perché un numero crescente di persone ha capito cosa è andato storto, e cosa va ricostruito.

Nella tradizione americana, l’oscurità non è mai stata l’ultima parola. Spesso è stata il preludio. Oggi, tra rabbia e mobilitazione, prende forma una fede laica, che dopo questo “fottuto incubo” arriverà un nuovo giorno, più giusto, più democratico, più condiviso. Non per destino, ma per scelta collettiva.