Non sono ancora state pubblicate le motivazioni della Corte dei Conti, lo saranno tra trenta giorni, e già l’Italia politica si è lanciata nel consueto gioco delle accuse, degli slogan e delle verità preconfezionate. È bastata la notizia del mancato “visto di legittimità” sul progetto del Ponte sullo Stretto per scatenare un’ondata di reazioni che poco hanno a che vedere con il merito della decisione e molto con la tensione crescente tra Governo e organi di garanzia.
La Corte dei Conti, nella sua nota ufficiale, ha voluto precisare che il giudizio espresso riguarda esclusivamente profili di legittimità amministrativa, non certo l’opportunità politica dell’opera. Un richiamo ovvio, ma necessario in un clima dove il confine tra diritto e politica sembra sempre più sottile. Il rispetto della legittimità, ha ricordato la Corte, è “presupposto imprescindibile per la regolarità della spesa pubblica”. È un principio scolpito nella Costituzione, non un atto di sabotaggio contro il Ponte, né un disegno di interdizione politica.
Eppure, la reazione di Palazzo Chigi è stata immediata e furiosa. La premier Giorgia Meloni ha parlato di “atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento”, preannunciando come risposta la riforma della giustizia e della stessa Corte dei Conti. Parole pesanti, che segnano un ulteriore passo nella crescente ostilità tra esecutivo e organi di controllo. Matteo Salvini ha rincarato la dose, parlando di “scelta politica” e assicurando che “si andrà avanti comunque”.
Il punto, tuttavia, è proprio questo, la Corte non ha espresso un giudizio politico, ma tecnico. Ha ritenuto che la delibera Cipess da 13,5 miliardi non rispetti pienamente le norme e le procedure previste per l’assunzione di un impegno di spesa di tale portata. In altre parole, ha esercitato la funzione che le è propria: garantire la legalità e la responsabilità contabile. Parlare di “invasione di campo” prima ancora di leggere le motivazioni significa, nei fatti, svuotare di senso ogni forma di controllo istituzionale.
Il Governo ha certamente la facoltà di andare avanti, assumendosi la responsabilità politica e amministrativa dell’opera. La Costituzione prevede infatti che, in caso di rifiuto di registrazione, il Consiglio dei ministri possa deliberare che l’atto risponda a un “interesse pubblico superiore”. In tal caso, la Corte registrerà l’atto “con riserva”. Il Ponte, dunque, può procedere, ma il Governo ne diventerebbe garante unico e diretto, senza più la copertura di legittimità contabile.
Siamo di fronte, quindi, non a uno scontro tecnico, ma a una questione di equilibrio istituzionale. Ogni volta che un organo di garanzia esercita la propria funzione, viene accusato di interferenza; ogni volta che la magistratura contabile o amministrativa richiama il principio di legalità, si parla di “invasione”. È un riflesso pericoloso, perché scava un solco tra il potere politico e quei meccanismi di controllo che la democrazia ha costruito proprio per limitare gli abusi del potere.
La vicenda del Ponte sullo Stretto, dunque, è molto più di una disputa su un’opera pubblica. È il termometro di un clima istituzionale sempre più febbrile, in cui ogni atto di controllo è vissuto come un atto di ostilità, ogni rilievo tecnico come un ostacolo politico. Eppure, in uno Stato di diritto, la legalità non è una formalità, è la condizione stessa dell’azione pubblica.
Prima di lanciare accuse di “intollerabile invadenza”, forse sarebbe utile attendere, e leggere, le motivazioni della Corte. Solo allora si potrà discutere nel merito, senza trasformare un atto di vigilanza contabile in un nuovo fronte di guerra tra poteri dello Stato.
Perché il vero rischio, in fondo, non è che il Ponte non si faccia. È che, nel farlo, si sgretolino i pilastri del controllo e del rispetto reciproco su cui si regge la nostra Repubblica.
