Harvard vince, Trump arretra: la legge non si piega al potere

Il tentativo di punire Harvard per ragioni ideologiche si infrange contro lo Stato di diritto. Trump costretto a trattare dopo la sconfitta

Harward

C’è una giustizia che arriva in silenzio, senza proclami, ma lascia il segno. La recente decisione della giudice federale Allison Burroughs a favore dell’Università di Harvard rappresenta non solo una vittoria per l’istruzione superiore americana, ma un promemoria necessario per chi pensa di piegare le istituzioni al proprio tornaconto politico. Con un’ingiunzione preliminare, il tribunale ha sospeso il tentativo dell’amministrazione Trump di escludere Harvard dal programma per studenti internazionali, ribadendo un principio semplice quanto fondamentale: il sapere non ha confini, né deve essere ostaggio dell’arbitrio presidenziale.

Harvard, come molte altre università statunitensi, è molto più di un campus elitario: è un ponte tra culture, un centro di ricerca globale, un faro per l’innovazione e il pensiero critico. Tagliare fuori un ateneo di tale caratura dal flusso degli studenti internazionali, sulla base di accuse generiche e politicizzate, è un atto miope, che danneggia non solo l’università, ma anche la credibilità e la competitività degli Stati Uniti nel mondo accademico e scientifico.

L’amministrazione Trump ha motivato il provvedimento con l’accusa di “gravi irregolarità” e, soprattutto, con la retorica tossica dell’antisemitismo collegato alle proteste pro-Gaza. Ma la verità è che si è trattato di un attacco ideologico, confezionato per punire ambienti che, in nome della libertà accademica, non si piegano alla narrazione ufficiale. Non è la prima volta che Trump prova a piegare le università, considerate da sempre fucine di pensiero critico e dissenso, ai propri obiettivi politici. Ma questa volta, la legge ha posto un argine.

Adesso, di fronte alla sentenza sfavorevole, e con oltre due miliardi di dollari di finanziamenti federali congelati sul tavolo, il presidente si affretta a parlare di “possibile accordo”. Come sempre, Trump indossa la maschera del negoziatore solo dopo aver perso la partita. È uno schema noto: minaccia, colpisce, fallisce e poi si riposiziona, tentando di riscrivere i fatti a suo favore. È successo con i leader internazionali, con le agenzie federali, con la sanità, e ora con le università.

Ma il danno, per quanto temporaneamente bloccato, resta. Ogni volta che si mette in discussione la legittimità di istituzioni come Harvard, ogni volta che si condizionano i finanziamenti pubblici in base all’allineamento ideologico, si erode il tessuto democratico americano. Le università non sono entità perfette, ma devono essere libere di pensare, di ospitare, di dissentire. Solo in questo modo possono continuare a formare cittadini e non sudditi.

Il messaggio della giudice Burroughs è chiaro: l’America che guarda al futuro non può permettersi di chiudere le porte ai giovani del mondo. Trump potrà anche cercare di presentarsi come l’artefice di una “storica riconciliazione” con Harvard, ma la realtà è un’altra: ha dovuto arretrare davanti alla legge. E questa, oggi più che mai, è una buona notizia.