
Nel mare agitato della diplomazia internazionale, la coerenza è spesso la prima vittima. Il recente vertice del G7 ha fornito l’ennesima dimostrazione di come i princìpi invocati con fervore in un contesto vengano sistematicamente ignorati in un altro, se a cambiare è il protagonista. L’Iran ha respinto con fermezza le conclusioni del summit, accusando Israele di essere l’aggressore in una guerra che ormai si combatte non solo con le armi, ma anche con le narrazioni. E in questa guerra parallela della narrazione, l’Occidente si distingue per la sua abilità nel piegare la retorica alla convenienza geopolitica.
A distanza di oltre due anni dall’invasione russa dell’Ucraina, il blocco occidentale continua a mantenere salda una linea di condanna e isolamento verso Mosca. Giustamente, si potrebbe dire, perché nessuna ragione geopolitica può giustificare la violazione della sovranità nazionale. Eppure, quando a lanciare missili è Israele, e il bersaglio è l’Iran, per di più colpito sul proprio territorio, l’atteggiamento cambia. Non sanzioni, non condanne, non richiami ufficiali: solo silenzio, o nella migliore delle ipotesi, vaghe esortazioni alla “moderazione”.
Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Esmail Baghaei, ha denunciato apertamente questa ipocrisia, accusando il G7 di aver ignorato “la spudorata e illegale aggressione di Israele”. Al di là delle simpatie o antipatie ideologiche che ognuno può nutrire, resta un fatto incontrovertibile: la Carta dell’ONU, che vieta l’uso della forza tra gli Stati salvo in casi di legittima difesa o con mandato del Consiglio di Sicurezza, è stata aggirata. Esattamente come nel caso russo.
La differenza? Israele è un alleato storico degli Stati Uniti e delle potenze occidentali. L’Iran no. E in questo squilibrio di alleanze e interessi si gioca tutta la narrazione internazionale: l’aggressione diventa “prevenzione”, le vittime “complici”, e la condanna “un’opzione da valutare”.
Naturalmente, la storia del conflitto israelo-iraniano è complessa, e Teheran non è certo estranea a politiche aggressive e retoriche incendiarie. Ma proprio per questo, il doppio standard è ancora più grave. O le regole del diritto internazionale valgono per tutti, o diventano uno strumento di propaganda. O si sanziona ogni violazione della sovranità, oppure si ammetta, con onestà brutale, che ciò che conta non è il diritto, ma il potere.
Il G7 avrebbe potuto, e dovuto, condannare qualsiasi escalation militare che metta a rischio la pace e la sicurezza globale. Avrebbe potuto ricordare che le infrastrutture civili, colpite nei raid israeliani, meritano la stessa indignazione che suscitano quando a colpirle è Mosca. Invece, ha scelto di guardare da un’altra parte, lasciando che l’equilibrio delle convenienze prevalga sull’universalità dei princìpi.
Il risultato è una diplomazia a geometria variabile, dove il diritto è piegato alla geostrategia. Ma ogni volta che la comunità internazionale chiude un occhio, ne apre uno alla delegittimazione dei suoi stessi valori. E così, mentre il Medio Oriente brucia e l’Ucraina continua a combattere, il mondo osserva e prende nota: le regole ci sono, ma non per tutti.