Di fronte allo spettacolo spesso grottesco della politica americana, l’incontro tra Donald Trump e il sindaco eletto di New York Zohran Mamdani offre un raro momento di verità, e non necessariamente quella proclamata nello Studio Ovale. La verità, infatti, non si misura nelle parole pronunciate davanti ai fotografi, ma nel contrasto tra mesi di retorica incendiaria e l’improvvisa, quasi teatrale conversione del Presidente a un elogio sperticato del suo nemico politico.
Trump, che aveva definito Mamdani un “pazzo comunista” e minacciato ritorsioni finanziarie su New York in caso di sua vittoria, ha improvvisamente scoperto un interlocutore “razionale”, un uomo con cui “andare d’accordo”, al punto da dichiarare che vivrebbe serenamente sotto la sua amministrazione. Una metamorfosi retorica che stupisce solo chi ancora prende alla lettera le oscillazioni verbali del presidente. Chi conosce la grammatica del trumpismo sa che queste inversioni a U non nascono mai da un’assunzione di responsabilità, ma sempre da un calcolo politico.
La postura politica di Mamdani
Eppure, l’incontro rivela qualcosa di più interessante: la solidità e la calma con cui Mamdani ha scelto di non cadere nella trappola della polemica personale. Pur avendo definito Trump un “despota” durante la campagna, una descrizione che molti osservatori considerano fin troppo gentile, Mamdani ha mantenuto la rotta. Non si è scusato, non ha smussato le sue posizioni, ma ha spostato il baricentro della conversazione sul terreno che più gli appartiene: l’accessibilità economica, l’emergenza casa, il costo della vita.
Mentre Trump trasformava l’incontro in una performance mediatica, Mamdani parlava di affitti, bollette, generi alimentari, aiuti alle famiglie dei quartieri popolari. Parlava, cioè, di politica reale.
Perché gli elettori hanno premiato Mamdani
Questa differenza di approccio è forse la chiave per comprendere perché una parte degli elettori trumpiani, uno su dieci, secondo gli exit poll, abbia scelto proprio Mamdani alle urne. In un panorama politico polarizzato, Mamdani non si è limitato a denunciare le ingiustizie, ha offerto un progetto concreto e riconoscibile. E molti newyorkesi, indipendentemente dalla loro ideologia, hanno colto la differenza tra chi soffia sulle paure e chi tenta di risolvere i problemi.
Il nervosismo della destra radicale
Il nervosismo di parte della destra MAGA, subito esploso sui social e nei comunicati dei suoi esponenti più estremi, è rivelatore. Laura Loomer ha gridato al tradimento, Elise Stefanik è arrivata a reiterare l’odiosa etichetta di “jihadista”, segno che un pezzo del trumpismo teme più la normalizzazione di Mamdani che la sua radicalità. Perché Mamdani non è un fantasma utile alla propaganda, è un politico con un consenso crescente e una credibilità che nemmeno le caricature più tossiche sono riuscite a erodere.
La vera lezione dello Studio Ovale
Il vero significato dell’incontro, dunque, non è il temporaneo idillio presidenziale. È il riconoscimento implicito, da parte di Trump, che il nuovo sindaco di New York rappresenta un’autorità politica che non può permettersi di ignorare, men che meno di demonizzare.
Mamdani, per parte sua, ha risposto come risponde un leader sicuro della propria visione, senza cercare la rissa, senza rinunciare alla propria identità, ma soprattutto senza dimenticare chi rappresenta. New York. I suoi cittadini. E le loro vite quotidiane.
La fermezza come forma di leadership
Ed è forse questa la nota più significativa in una settimana di gesti simbolici, mentre Trump cambia toni come cambia umore, Mamdani resta fermo. E in tempi di politica liquida, la fermezza è già una forma di vittoria.
