Dal Cremlino a Gaza: il lungo filo rosso dell’ostilità a Israele

Il filo dello stalinismo, in fondo, è ancora lì: dall’antisemitismo travestito da antisionismo nella propaganda sovietica alle guerre di oggi: come un’eredità ideologica continua a plasmare conflitti e alleanze, mentre ad Anchorage Putin e Trump ridisegnano gli equilibri globali

Il filo che unisce il presente al passato a volte è invisibile, altre volte pulsa sotto la superficie della storia, pronto a riaffiorare nei momenti di crisi. Per capire ciò che accade oggi in Medio Oriente e perché una parte della sinistra continua a guardare Israele con ostilità viscerale, bisogna tornare a Mosca, a quegli anni in cui Iosif Stalin, nel crepuscolo del suo potere, lasciò che l’antisemitismo, dapprima bandito come retaggio zarista, si insinuasse nelle vene dell’Unione Sovietica. Negli anni Venti e Trenta, l’URSS si proclamava nemica di ogni forma di razzismo e molti ebrei occupavano ruoli centrali nella macchina rivoluzionaria. Ma la Seconda guerra mondiale cambiò ogni cosa. Dopo il patto Molotov-Ribbentrop del 1939, la spartizione della Polonia e l’alleanza tattica con Hitler resero scomodo parlare troppo della persecuzione degli ebrei. Il silenzio fu un calcolo politico.

Quando nel 1948 nacque Israele, Stalin, inizialmente favorevole, lo vide presto orientarsi verso l’orbita occidentale. Da quel momento, il “nemico ebreo” fu riformulato come “nemico sionista”: il cosmopolitismo “senza radici” divenne un’accusa in codice e campagne orchestrate contro scrittori, medici e intellettuali ebrei prepararono il terreno all’ultimo grande atto della sua paranoia, il cosiddetto “complotto dei medici”. L’antisemitismo biologico cedette il passo a un antisemitismo politico, travestito da antisionismo, che avrebbe attraversato i decenni come una corrente sotterranea.

Durante la Guerra Fredda, la retorica sovietica saldò l’ostilità verso Israele alla lotta antimperialista, schierandosi con i Paesi arabi nelle guerre del ’67 e del ’73 e dipingendo lo Stato ebraico come un avamposto coloniale degli Stati Uniti. Questa visione penetrò nei partiti comunisti europei e nella sinistra terzomondista, diventando un riflesso ideologico difficile da scalfire.  In quegli anni, la stampa e gli strumenti di produzione culturale del Cremlino – dal Great Soviet Encyclopedia alla Pravda – veicolavano un messaggio secco e agguerrito: il sionismo era definito come ‘sciovinismo o nazionalismo militante, razzismo, anticomunismo e antisovietismo’, descritto come ‘reazionario antiumano’, ‘lotta aperta e segreta contro i movimenti di liberazione’ e dipinto come agenzia di influenza occidentale che manipola i media. Una visione in cui il sionismo diventava la maschera ideologica del colonialismo globale. In buona sostanza, Israele veniva ritratto come un ‘regime terrorista’ paragonabile a un cartello criminale internazionale.

Ma non è solo “colpa” dello stalinismo.

L’antisemitismo europeo aveva radici ben più antiche: dai pogrom dell’Ottocento ai Protocolli dei Savi di Sion, fino alla retorica religiosa e complottista che dipingeva gli ebrei come corpo estraneo e minaccioso. Durante il Terzo Reich, Hitler trasformò quel pregiudizio in un progetto politico di sterminio e trovò alleati anche fuori dall’Europa, come il Gran Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini, che condivise la propaganda nazista e la portò nel mondo arabo. Questa convergenza ideologica tra nazismo e nazionalismo arabo sopravvisse alla guerra, “ripulita” del linguaggio hitleriano ma non della sostanza, pronta a essere riutilizzata in chiave antisraeliana sia nei Paesi arabi sia in certi ambienti estremisti europei. Stalin non fece che politicizzare un pregiudizio già diffuso, incanalandolo in una narrazione antimperialista.

Va chiarito, per evitare strumentalizzazioni, che criticare la politica di Israele non equivale a essere antisemiti. La critica legittima è parte del dibattito democratico; ciò che qui si evidenzia è la continuità storica di un uso dell’antisionismo come maschera dell’antisemitismo, soprattutto quando si adottano linguaggi e schemi ereditati dalla propaganda sovietica.

Negli anni della decolonizzazione, questo frame si intrecciò al sostegno per le cause del Sud globale, consolidando l’immagine di Israele come erede delle potenze coloniali. Con il tempo, a questa eredità si sono aggiunti fattori più recenti: le scelte politiche dei governi israeliani, in particolare sotto le leadership più intransigenti, come quella di Netanyahu, l’impatto polarizzante delle immagini diffuse sui social e l’azione di attori come Iran, Qatar e Turchia, che hanno amplificato e strumentalizzato la narrativa anti-Israele per propri obiettivi geopolitici.

Il crollo dell’URSS non cancellò quel frame, anzi…

Negli anni Novanta, in Russia, l’antisemitismo si intrecciò al nazionalismo, ma l’equazione sionismo-imperialismo sopravvisse negli ambienti ex-comunisti. Con Putin, tornò utile: nei momenti di tensione in Medio Oriente, il Cremlino rispolverò la retorica, adattandola alle alleanze con Iran e Siria. Non era più un antisemitismo di massa, ma una strumentalizzazione selettiva: colpire Israele per accreditarsi come potenza protettrice del mondo arabo, rafforzando rapporti strategici e accordi militari.

In parallelo, una parte della sinistra occidentale – quella che oggi in Italia viene definita di “campo largo” – continuò a utilizzare schemi interpretativi nati in quegli anni, non sempre per antisemitismo consapevole, ma per eredità ideologica: Israele come potenza coloniale, Hamas come resistenza, ogni attacco terroristico letto come risposta inevitabile a un’occupazione. Questo riflesso condizionato si vede ancora oggi nei comunicati ufficiali, nei cortei e nelle prese di posizione che ignorano o minimizzano la violenza di Hamas, mentre amplificano ogni azione israeliana come prova di un disegno di oppressione.

E così si arriva a oggi, quando Benjamin Netanyahu, dopo mesi di guerra, ha fatto approvare un piano per prendere il controllo totale di Gaza City: disarmare Hamas, liberare tutti gli ostaggi in un’unica soluzione, instaurare un’amministrazione alternativa sotto controllo israeliano. Niente più tregue parziali: l’obiettivo è “completare il lavoro”, come ha detto lui stesso.

Eppure, mentre i carri armati avanzano e le mappe militari ridisegnano quartieri e destini, negli ospedali di Gaza arrivano ogni giorno bambini ridotti a ombre, gonfi di fame, con lo sguardo perso di chi sa che il tempo si sta esaurendo. L’ONU denuncia una catastrofe alimentare, ma Netanyahu nega e ironizza: “Hamas ha bisogno di Ozempic”. Intanto, le telecamere mostrano file interminabili di madri con i figli in braccio, in attesa di un pasto che spesso non arriverà mai. In cliniche al buio, le infermiere compilano a mano elenchi di piccoli deceduti, perché i generatori sono fermi e i computer muti. È una guerra che ha scelto di combattere anche con la fame e l’attesa, trasformandole in armi silenziose ma implacabili.

La fame, di fatto, è arma e campo di battaglia. Organizzazioni umanitarie denunciano che Israele “strumentalizza gli aiuti”, bloccando convogli con nuove regole di registrazione che rallentano, complicano, impediscono. Nei villaggi, la gente muore per strada mentre tenta di raggiungere un punto di distribuzione alimentare. E in Israele, centinaia di ex ufficiali dell’aeronautica manifestano contro la guerra, affiancati da civili che chiedono la liberazione degli ostaggi e la fine di un conflitto che sta logorando anche l’anima del Paese.

Sul piano politico, Netanyahu guarda oltre. Annuncia la costruzione di 3.400 nuove case in Cisgiordania, nel piano E1, destinato a tagliare ogni continuità territoriale tra Gerusalemme Est e le città palestinesi vicine. Parla apertamente di “Greater Israel”, suscitando la condanna unanime delle capitali arabe, che vedono nelle sue parole un progetto di guerra senza fineIn parallelo, il capo del Mossad vola in Qatar per tentare di riaprire i negoziati, in un’operazione diplomatica che sa di disperazione. L’Italia, intanto, evacua più di cento persone da Gaza, tra cui trentuno bambini: un frammento di umanità in un mare di calcolo strategico.

Tutto questo si svolge mentre, dall’altra parte del globo, proprio oggi, il ‘fatidico’ (forse risolutivo?) 15 agosto 2025, ad Anchorage, in Alaska, si apre il primo vertice tra Stati Uniti e Russia dall’inizio della guerra in Ucraina. Trump e Putin si stanno per incontrare in una base militare, ufficialmente per discutere della Malaja Rus’, “Piccola Rus’”, controllo degli armamenti e cooperazione economica. Ma il timing è significativo: con Israele impegnato in una guerra totale a Gaza, la crisi mediorientale distoglie in ogni caso l’attenzione dall’Europa orientale, offrendo a Mosca un margine di manovra. Secondo fonti vicine al Cremlino, Putin vede in questa distrazione un’occasione per spingere Trump verso concessioni territoriali sul Donbass e un allentamento delle sanzioni, contando sul fatto che l’opinione pubblica americana è più interessata alla stabilità del Medio Oriente che alle sorti di Kiev.

Il filo di Stalin, in fondo, è ancora lì: un’impostazione ideologica che ha trasformato l’ebreo in sionista, il sionista in colonialista, il colonialista in nemico. Oggi questo retaggio convive con un altro paradosso: uno Stato d’Israele guidato da un leader che, con le sue scelte, alimenta narrazioni di oppressione e legittima, agli occhi dei suoi detrattori, proprio quel racconto nato nei corridoi del Cremlino stalinista.

La ‘rappresentazione’ di questa giornata sembra sospesa tra due immagini: a Gaza, un medico stringe tra le braccia un bambino di tre anni che respira a fatica, la pelle tirata sugli zigomi, le labbra secche; in Alaska, due presidenti si stringono la mano davanti alle telecamere, sorrisi calibrati, parole misurate. Due mondi che sembrano lontani, ma che sono uniti da una rete invisibile di interessi, propaganda e storiaSe la storia ci ha insegnato che certe idee possono attraversare epoche e sistemi politici, il presente ci avverte che senza una scelta consapevole di interrompere quelle catene, continueremo a vederle agire, trasformandosi di volta in volta, ma restando ugualmente letali. Oggi, più che mai, rompere quel filo significa decidere se il futuro sarà costruito sulla memoria o sull’oblio.

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