
Nel primo semestre del 2025, il dollaro statunitense ha vissuto un crollo senza precedenti nella storia moderna: quasi l’11% di perdita di valore rispetto a un paniere di valute estere. Un calo così drammatico non si registrava dal 1973, anno spartiacque nel panorama valutario internazionale. Allora fu lo “shock Nixon” – lo sganciamento del dollaro dall’oro – a innescare una nuova era. Oggi è un altro presidente, Donald Trump, a scuotere i mercati globali.
Mentre l’euro guadagna forza (+13,8%), così come yen e sterlina, la moneta americana arranca. Per molti osservatori, siamo davanti a una crisi di fiducia profonda e sistemica, più che a una semplice fase di volatilità.
Trump, i dazi e il caos: la miccia accesa da Washington
Il cuore del terremoto valutario è politico. L’amministrazione Trump ha gettato benzina sul fuoco con una serie di decisioni economiche e commerciali che hanno disorientato investitori e partner internazionali. La cosiddetta “guerra dei dazi” – fatta di minacce, sospensioni e nuove imposte a rotazione – ha generato incertezza cronica sui mercati.
Questa instabilità non è un effetto collaterale, ma parte della strategia politica di Trump. Eppure, il prezzo che il dollaro sta pagando è altissimo. Gli operatori finanziari fuggono dagli asset americani, rifugiandosi in valute più stabili come il franco svizzero e lo yen giapponese. Il biglietto verde è scivolato a 0,7890 franchi e 142,86 yen, segnando nuovi minimi decennali.
La “One Big, Beautiful Bill Act”: un debito da trilioni
A peggiorare il quadro è la gigantesca legge di bilancio che Trump sta cercando di far approvare: la “One Big, Beautiful Bill Act”, un piano faraonico di tagli fiscali per i più ricchi, aumento delle spese militari e forti investimenti nel controllo dei confini.
Ma la copertura economica è fragile, quando non del tutto assente. Secondo le stime, il disegno di legge aggiungerà oltre 3.300 miliardi di dollari al debito pubblico americano nel prossimo decennio. Un buco nero di finanza pubblica che spaventa gli investitori e mette sotto pressione la solvibilità del Tesoro USA.
Nel frattempo, l’indice del dollaro – che misura il valore della moneta americana rispetto a un paniere di sei valute – è sceso a 96,698, il livello più basso dal febbraio 2022. Un altro segnale d’allarme.
Trump contro la Fed: la guerra interna alla credibilità monetaria
Se c’è un’istituzione che da sempre garantisce l’autorevolezza del dollaro, è la Federal Reserve. Ma proprio questa colonna portante è ora sotto attacco. Trump ha lanciato ripetuti attacchi personali al presidente della Fed, Jerome Powell, chiedendone addirittura le dimissioni.
Non potendolo licenziare direttamente, Trump ha scelto la strada dello scontro mediatico, accompagnato da pressioni politiche e richieste insistenti di tagli ai tassi d’interesse, contrarie all’autonomia della banca centrale. Una mossa che ha minato la fiducia degli investitori nell’indipendenza della politica monetaria americana.
Goldman Sachs prevede ora tre tagli ai tassi entro l’anno, mentre la Fed, spinta dalle turbolenze sul mercato del lavoro e dalla fragilità economica, sembra costretta a cedere. Ma a quale prezzo?
Una valuta debole, un paese più povero
Il dollaro più debole, in teoria, favorisce le esportazioni statunitensi rendendo i beni “Made in USA” più competitivi. Ma nella pratica, le barriere commerciali imposte da Trump stanno vanificando questo potenziale vantaggio.
Al contrario, per l’Europa e altri paesi esteri, l’indebolimento del dollaro è una benedizione: viaggiare negli Stati Uniti è diventato più conveniente, così come acquistare prodotti americani. L’euro, in particolare, si è rafforzato fino a 1,181 dollari, segnando la performance migliore di sempre in un primo semestre.
Eppure, il messaggio che arriva ai mercati non è solo valutario: è una dichiarazione di sfiducia nella guida economica degli Stati Uniti. Quando la principale valuta di riserva del mondo perde attrattività, tutto il sistema finanziario globale vacilla.

Un’economia sull’orlo: tra dati negativi e timori futuri
A complicare ulteriormente lo scenario ci sono i dati economici interni: disoccupazione in crescita, settore manifatturiero in contrazione, e un mercato del lavoro sotto osservazione. Giovedì è atteso il report sulle buste paga non agricole, indicatore chiave della salute economica americana.
Un risultato negativo potrebbe innescare una nuova ondata di svalutazione del dollaro, con conseguenze globali. Gli operatori, intanto, già scommettono su 68 punti base di taglio dei tassi da parte della Fed entro fine anno.
Fine del dominio? Il futuro incerto della valuta di riferimento mondiale
Negli ultimi 80 anni il dollaro è stato il pilastro dell’economia globale. Ma oggi, sotto il peso delle scelte di Trump, quel pilastro mostra crepe profonde. La fiducia internazionale si sta erodendo. E mentre altre economie, come l’Unione Europea o l’Asia, rafforzano la loro stabilità monetaria, l’egemonia americana traballa.
Il declino del dollaro non è solo un grafico in discesa: è il simbolo di un sistema che si sta trasformando, di un mondo che non è più disposto ad affidarsi ciecamente alle sorti e alle scelte di Washington.
Un segnale d’allarme per l’economia globale
Non siamo solo di fronte a un ciclo economico sfavorevole. Il crollo del dollaro è un campanello d’allarme sullo stato di salute della leadership americana nel mondo. Finché non si ripristineranno credibilità, stabilità politica e coerenza economica, la moneta più potente della storia moderna rischia di diventare una delle più instabili.