
Un uomo viene afferrato in mezzo alla strada, picchiato fino alla morte sotto gli occhi dei passanti. Una lunga scia di sangue resta sull’asfalto di Tripoli, testimonianza muta di un nuovo atto di barbarie. A commettere l’omicidio, secondo le immagini diffuse dalla testata libica Almasdar Media, sarebbe Osama Njeem Almasri, ex comandante della Rada e della polizia giudiziaria, già destinatario di un mandato di cattura della Corte penale internazionale e di un’indagine aperta dalla procura generale di Tripoli.
Non è un nome sconosciuto al nostro Paese. Al contrario, il generale Almasri è stato rimesso in libertà e riaccompagnato in Libia proprio grazie a un volo di Stato italiano. Una vicenda che, a distanza di mesi, continua a sollevare interrogativi mai chiariti dal governo. Oggi, quelle domande assumono il volto tragico di un nuovo cadavere in strada.
Il cuore del problema non è soltanto il crimine brutale commesso da un ricercato internazionale, ma il ruolo che l’Italia ha giocato, e che non ha mai chiarito fino in fondo. Quali motivazioni hanno spinto le autorità italiane a riconsegnare Almasri a Tripoli? Quali pressioni, quali accordi o calcoli geopolitici hanno prevalso sul rispetto del diritto internazionale?
Il silenzio istituzionale pesa come un macigno. Perché se è vero che la Libia è un Paese instabile, attraversato da conflitti interni e dominato da milizie, è altrettanto vero che l’Italia, nel momento in cui ha scelto di rimettere in circolazione un uomo accusato di gravi crimini, si è assunta una precisa responsabilità politica.
Le immagini diffuse in queste ore raccontano di un uomo che continua a muoversi liberamente, a colpire, a esercitare violenza senza temere conseguenze. Nonostante i mandati internazionali, nonostante le inchieste, nonostante l’attenzione della comunità internazionale.
Ahmed Hamza, figura emergente del panorama politico libico e responsabile per i diritti umani, ha denunciato con chiarezza: “L’impunità per questi crimini deve finire. I responsabili devono essere chiamati a rispondere delle proprie azioni.” Parole che colpiscono per la loro nettezza e che mettono a nudo l’ipocrisia dei governi occidentali, Italia compresa, quando scelgono di girarsi dall’altra parte.
Non si tratta di un dettaglio diplomatico, ma di un cortocircuito che mina alle fondamenta ogni discorso sulla sicurezza, sulla stabilità mediterranea, sulla tutela dei diritti umani. Perché se un ricercato internazionale può tornare a uccidere in mezzo alla strada, significa che la giustizia non vale nulla e che le logiche di potere contano più della vita delle persone.
Questo scandalo, che oggi ritorna con forza davanti all’opinione pubblica, non può più essere archiviato nel silenzio. Il governo italiano ha il dovere di spiegare, chiarire, assumersi le proprie responsabilità. Non farlo significa accettare di essere corresponsabili, anche indirettamente, di ciò che accade.
In Libia, l’impunità di Almasri è il simbolo di un Paese ostaggio delle milizie. In Italia, il suo rimpatrio con volo di Stato rischia di diventare il simbolo di una politica estera cinica, incapace di difendere la legalità e pronta a sacrificare la giustizia sull’altare di accordi opachi.
Il sangue sull’asfalto di Tripoli non è solo una ferita libica. È anche un monito che ci riguarda da vicino. E che ci obbliga a scegliere se restare complici del silenzio o pretendere finalmente la verità.