C’è una differenza sostanziale tra governare le istituzioni e impossessarsene. La decisione di rinominare il John F. Kennedy Center for the Performing Arts aggiungendo il nome di Donald Trump segna il superamento di quella linea. Non è una questione di vanità personale, che pure è evidente, ma di metodo, di diritto e di memoria storica.
Il Kennedy Center non è un edificio qualsiasi. È un memoriale vivente dedicato a John F. Kennedy, presidente assassinato mentre incarnava l’idea che la cultura fosse parte integrante della democrazia. Intitolargli un centro nazionale per le arti significava affermare che musica, teatro e pensiero critico non sono ornamenti, ma pilastri civici. Affiancare oggi quel nome a quello di Trump non è un tributo condiviso, ma un atto di forza che schiaccia la memoria sotto il peso del potere.
Il punto non è solo simbolico. Il consiglio di amministrazione che ha votato all’unanimità la rinomina è stato preventivamente “normalizzato”, epurazioni, modifica degli statuti, riduzione al silenzio dei membri ex officio nominati dal Congresso. Una manovra procedurale che molti giuristi considerano in conflitto con la legge federale istitutiva del Centro, la quale non distingue tra membri votanti e non votanti e affida la governance a un equilibrio volutamente ampio. Chi cambia le regole per non poter perdere non esercita leadership, esercita autorità senza legittimità.
In questo contesto, le accuse, mai smentite in modo convincente, di pressioni sui finanziamenti assumono un peso decisivo. Se l’aggiunta del nome di Trump è stata accompagnata, esplicitamente o implicitamente, dalla minaccia di tagliare i fondi federali, allora siamo davanti a un ricatto istituzionale. Denaro pubblico usato come leva privata per riscrivere l’identità di un’istituzione nazionale. È la trasformazione del mecenatismo in coercizione.
Le conseguenze sono già visibili. Artisti che si ritirano, programmazioni cancellate, ascolti degli Honors ai minimi storici. Non per snobismo ideologico, ma perché molti riconoscono che un centro culturale non può diventare l’estensione di una fazione politica senza perdere credibilità. Il jazz, la danza, il teatro, nati spesso da conflitto e dissenso, difficilmente prosperano sotto un marchio percepito come imposizione di potere.
La famiglia Kennedy e numerosi legislatori democratici parlano apertamente di illegalità. Non è un dettaglio. Il nome del Centro non è modificabile con un voto interno o con un post sui social, richiede un atto del Congresso. Il fatto che il nuovo nome sia comparso sull’edificio e sul sito nel giro di 24 ore dice molto sullo stile dell’operazione, prima l’occupazione simbolica, poi, forse, la discussione giuridica.
Trump rivendica di aver “salvato” il Kennedy Center. Ma salvare non significa riscrivere. Restaurare un edificio non autorizza a risignificare un memoriale nazionale. Qui non si tratta di efficienza manageriale, ma di appropriazione simbolica, prendere un’icona della cultura democratica e piegarla a vessillo personale.
In ultima analisi, l’affiancamento dei nomi non eleva Trump al rango di Kennedy. Non è Trump a salire fino a Kennedy, è Kennedy a essere trascinato verso il basso. Un presidente ucciso da un attentato viene ridotto a scenografia per l’autoesaltazione di un altro. Non è una fusione di eredità, è una profanazione simbolica. E mostra cosa accade quando il potere non incontra limiti, la memoria pubblica smette di appartenere a una nazione e diventa il riflesso narcisistico di chi governa.
