Zelensky evoca la morte di Putin

Dal discorso natalizio di Zelensky emerge una guerra che non prevede accordi, ma una fine personale

Zelensky nel messaggio di Natale 2025

Nel discorso della vigilia di Natale, Volodymyr Zelensky compie un salto retorico che merita di essere osservato senza indulgenze né moralismi facili. L’augurio di morte rivolto, seppure per allusione, a Vladimir Putin non è una semplice invettiva da tempo di guerra, è un messaggio politico carico, pronunciato nel momento simbolicamente più alto dell’anno cristiano, quando la parola “pace” dovrebbe prevalere su ogni altra.

Zelensky sa usare il linguaggio come un’arma. Evoca il cielo che si apre, il desiderio condiviso, la preghiera collettiva. Poi introduce l’ombra: “Che possa morire”, pensa ciascuno di noi. La frase è calibrata per restare formalmente al di qua della responsabilità diretta, non impartisce ordini, ma abbastanza esplicita da superare il confine della semplice denuncia morale. È una delega simbolica, l’augurio non è suo, è “di tutti”. E quando un leader attribuisce al popolo un desiderio di morte, il messaggio smette di essere solo retorico.

Il contesto spiega, ma non assolve. Da quattro anni, la Russia colpisce l’Ucraina anche nei giorni che dovrebbero essere di tregua, trasformando il Natale in una dimostrazione di forza cinica. Missili sulle infrastrutture, droni sulle città, civili al freddo. Zelensky risponde contrapponendo l’idea di comunità resistente, di calore domestico difeso con le armi. Ma proprio qui si consuma la contraddizione, la difesa della vita e della normalità passa, nel discorso, attraverso la legittimazione della morte dell’avversario.

C’è poi un livello ulteriore, più inquietante. In politica internazionale, le parole dei capi di Stato non sono mai innocue. Un auspicio di morte, pronunciato pubblicamente, può essere letto come una pressione morale su chi, dentro o fuori la Russia, coltivi l’idea di “risolvere” il conflitto eliminando l’uomo al vertice. Zelensky non chiede un assassinio; ma segnala che quell’esito sarebbe desiderabile, quasi provvidenziale. È una forma di messaggio indiretto, che lascia agli altri l’onere, e il rischio, dell’azione.

Questo scarto ha conseguenze. Trasforma la guerra da conflitto tra Stati in lotta personalizzata, dove la fine non coincide più con un accordo, ma con la scomparsa fisica del nemico. È una narrazione che può rafforzare il consenso interno nel breve periodo, ma che complica ogni prospettiva di negoziato. Se la pace dipende dalla morte di qualcuno, allora la pace diventa ostaggio della violenza.

Zelensky resta, per molti, il simbolo della resistenza di un popolo aggredito. Ma proprio per questo le sue parole pesano di più. Un leader che invoca la pace deve misurare il linguaggio con cui descrive il male. Altrimenti, anche la ragione più giusta rischia di assomigliare troppo a ciò che combatte.