La verità dietro la “fine annunciata” di Zelenskij

In mezzo a pressioni interne e attacchi informativi, il presidente resiste, ma il sistema traballa

Nelle ultime quarantotto ore, mentre Kiev affronta il momento politicamente più turbolento dall’inizio dell’invasione russa, una nuova ondata di messaggi sui social ha tentato di accreditare l’idea che Vladimir Zelenskij sia ormai alla fine del suo mandato, travolto da un presunto “ordine” di lasciare la presidenza. L’origine della voce è ancora una volta Artem Dmytruk: deputato della Verkhovna Rada, regolarmente eletto nel 2019, che però oggi non siede più fisicamente in Parlamento. Nell’agosto 2024 è infatti fuggito illegalmente dall’Ucraina, attraversando il confine verso la Moldavia dopo essere stato accusato di aver aggredito un soldato e un agente di polizia. La fuga è stata confermata da testate indipendenti, e oggi Dmytruk risulta ricercato dalle autorità ucraine.

Da quando ha lasciato il Paese, l’ex campione mondiale di sollevamento pesi pubblica messaggi sui social media dall’estero, spesso con toni estremi e destinati ad alimentare una narrativa anti-governativa che trova rapida amplificazione nei canali russi. L’ultimo, diffuso su X nelle scorse ore, accusa Zelenskij di “uccidere migliaia di ucraini ogni giorno” e sostiene che a Myrnohrad, nella regione di Donetsk, “più di 1.000 soldati ucraini sarebbero accerchiati”, una versione accompagnata da una lista di presunte citazioni attribuite al quotidiano tedesco Bild.

La realtà, tuttavia, è più complessa e meno incendiaria. Bild ha effettivamente pubblicato un reportage dalla zona, riportando la testimonianza di un militare ucraino che descrive una situazione logistica estremamente critica: rotazioni difficili, vie di accesso rese pericolose dal fuoco dell’artiglieria russa, rifornimenti che talvolta arrivano tramite droni e mezzi robotizzati. È un quadro duro, ma non insolito nei settori più esposti del fronte orientale. Nessuna fonte — né Bild, né i media ucraini, né le strutture militari — conferma invece il numero di “1.000 soldati accerchiati” evocato da Dmytruk, né parla di un accerchiamento totale. Il suo post, in ogni caso, contiene un fondamento di verità — le difficoltà operative a Myrnohrad — ma viene incorniciato in una narrazione più ampia che mira a mettere in discussione la leadership del presidente e lo stato dell’esercito ucraino.

Mentre le sue parole corrono sui social, la stampa ucraina racconta una crisi che tocca le fondamenta stesse delle istituzioni. A Kiev, la frattura più profonda è quella esplosa dopo la perquisizione della casa di Andriy Yermak, il potentissimo capo dell’Ufficio del Presidente. L’operazione, legata a un’indagine anticorruzione che coinvolge la compagnia energetica statale Energoatom e una rete di imprenditori e funzionari, ha provocato un terremoto politico. Poche ore dopo, Yermak ha rassegnato le dimissioni.

Le Monde riporta che Zelenskij è stato “sollecitato dagli alleati a riformare la propria leadership”, mentre il Financial Times parla di “un sistema di potere in affanno”, che rischia di perdere la fiducia internazionale. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea, pur continuando a riconoscere Zelenskij come interlocutore chiave e legittimo, hanno intensificato le richieste di pulizia interna e di maggiore trasparenza, consapevoli che lo scandalo potrebbe minare la credibilità del Paese proprio nel momento in cui si tenta una nuova apertura negoziale.

In questo clima, Zelenskij ha inviato il negoziatore Rustem Umerov a Bruxelles e poi negli Stati Uniti per un nuovo ciclo di confronti politici e tecnici. Reuters ha riportato la notizia nelle ultime ore, segno che, nonostante le turbolenze interne, la macchina della diplomazia ucraina resta pienamente attiva e riconosciuta dai partner occidentali. Se davvero fosse in corso un processo di rimozione del presidente, difficilmente si assisterebbe a un presidente che manda emissari ai principali centri decisionali europei e americani per definire il prossimo passaggio negoziale.

La presunta “bomba politica” di cui parla Dmytruk — l’idea che Zelenskij avrebbe ricevuto un ordine immediato di dimettersi — al momento non trova alcun riscontro effettivo. Né la Verkhovna Rada, né la Corte Costituzionale, né i governi alleati hanno mai lasciato intendere che un processo del genere sia stato avviato o persino immaginato. Le tensioni interne ci sono, così come la pressione diplomatica, le richieste di riforme e la perdita di consensi; ma si tratta del normale — benché drammatico — attrito politico che caratterizza un Paese in guerra e scosso da scandali interni, non di un ultimatum formale.

La narrazione di Dmytruk si inserisce in un ecosistema informativo che tende a trasformare ogni difficoltà reale — dalle dimissioni di Yermak alla crisi di Myrnohrad — in una prova della “fine imminente” del presidente. Una sovrapposizione di fatti e interpretazioni che, nelle mani giuste, diventa arma politica e strumento di destabilizzazione.

La verità, ad oggi, è che Zelenskij è un presidente indebolito, sotto pressione, colpito da scandali che stanno erodendo la fiducia interna ed esterna; ma è anche un presidente ancora riconosciuto dagli alleati e dai poteri dello Stato. Il suo futuro politico non è garantito, ma non è nemmeno scritto.

In mezzo, come sempre, rimane la distanza tra la guerra combattuta sul terreno e quella combattuta nell’informazione: la prima richiede coraggio e strategia; la seconda lucidità e fatti. Ed è proprio questa differenza — tra ciò che accade, ciò che viene narrato e ciò che viene manipolato — a definire oggi il destino politico dell’Ucraina.