Le parole hanno un peso. E quando a pronunciarle è il presidente del Comitato Militare della NATO, quel peso può diventare una zavorra geopolitica, capace di alterare equilibri fragili e di alimentare tensioni già incandescenti. Le recenti dichiarazioni dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone al Financial Times, secondo cui un “attacco preventivo” potrebbe in certi casi configurarsi come “azione difensiva”, rappresentano un passo falso in un momento che richiede invece cautela chirurgica e disciplina strategica.
Non è solo questione di forma. È questione di sostanza, evocare la possibilità di iniziative “più aggressive” per rispondere agli attacchi ibridi russi significa introdurre nel dibattito internazionale un elemento destabilizzante proprio mentre, faticosamente, si tenta di aprire spiragli negoziali dopo quattro anni di guerra in Ucraina. È come maneggiare una torcia accesa in una stanza satura di vapori infiammabili.
L’ammiraglio non ignora il contesto. Anzi, riconosce lui stesso che una tale postura si discosta dal “normale modo di pensare e comportarsi” dell’Alleanza. Ed è proprio questo il punto, perché ipotizzare un mutamento dottrinale così delicato in un’intervista pubblica, anziché nei canali riservati dedicati alla pianificazione strategica? Perché rilanciare concetti che, per gli avversari come per gli alleati, suonano come un cambio di paradigma prima ancora che come un’analisi tecnica?
Se l’obiettivo era rafforzare la deterrenza, l’esito rischia di essere l’opposto. Mosca ha immediatamente colto l’occasione per denunciare “atteggiamenti irresponsabili” e “tentativi di escalation”. A prescindere dal grado di propaganda che permea le reazioni russe, è innegabile che affermazioni di questo tipo offrono argomenti a chi, all’interno del Cremlino, vuole dipingere la NATO come una potenza aggressiva, contribuendo a irrigidire le posizioni proprio mentre si tenta di spingere il conflitto verso una fase negoziale.
Anche all’interno dell’Alleanza le parole dell’ammiraglio non possono essere state accolte con entusiasmo. La NATO è un organismo politico prima ancora che militare, e qualsiasi cambiamento dottrinale richiede un consenso che attraversi sensibilità, storie e interessi nazionali diversi. Parlare di “attacco preventivo” senza offrire un contesto normativo, giuridico e procedurale significa bruciare terreno diplomatico anziché prepararlo.
L’Italia, poi, non può non interrogarsi sul ruolo del suo rappresentante in un momento tanto delicato. Tradizionalmente il nostro Paese ha svolto una funzione di ponte, sostenendo la fermezza dell’Alleanza ma al tempo stesso preservando un approccio prudente, dialogico, attento a non alimentare dinamiche di escalation. Le parole di Cavo Dragone appaiono disallineate rispetto a questa tradizione, rischiando di esporre Roma a critiche interne e internazionali non necessarie.
Questo non significa ignorare la crescente aggressività ibrida russa, sabotaggi, incursioni di droni, attacchi informatici ripetuti non sono episodi da minimizzare. L’operazione Baltic Sentry, che pare aver ottenuto risultati immediati in termini di deterrenza, dimostra che fermezza e coordinamento possono funzionare senza bisogno di scivolare in semantiche belliciste. Rafforzare la difesa collettiva è doveroso; suggerire scenari anticipatori o proattivi in un’intervista è avventato.
Il tempo è un elemento cruciale. Siamo in una fase in cui si parla, con estrema cautela, di possibili spiragli negoziali. È una finestra stretta, fragile, esposta alle intemperie della propaganda e delle provocazioni. In questo contesto, la prudenza non è debolezza, è saggezza strategica. E la sobrietà verbale è parte integrante della sicurezza europea.
La NATO ha il compito di proteggere, non di infiammare. E chi la rappresenta dovrebbe ricordarlo sempre, soprattutto quando parla al mondo.
