C’è un filo sottile che separa la tutela dei minori dall’abuso istituzionale. Nel caso della famiglia anglo-australiana che vive nei boschi di Palmoli, questo filo è stato oltrepassato con una leggerezza che dovrebbe preoccuparci più della scelta di vita rurale dei genitori. Tre bambini sono stati prelevati dalla loro casa, sottratti al papà e alla mamma e a un ambiente certamente fuori dall’ordinario ma non per forza incompatibile con il loro benessere. E lo Stato, ancora una volta, si presenta non come sostegno, ma come forza che irrompe, divide, traumatizza.
L’intervento mancato dello Stato
La decisione del Tribunale per i minori dell’Aquila ha acceso un inevitabile scontro politico. Ma la vera domanda, quella essenziale, resta sospesa: cosa ha fatto lo Stato per aiutare prima di punire? Se la casa non era dotata di servizi essenziali, perché non attivare un percorso di accompagnamento? Se l’istruzione non era pienamente conforme, perché non offrire supporto, strumenti, consulenze? Se lo stile di vita era ritenuto rischioso, perché non ascoltare, mediare, costruire?
Invece, l’intervento è arrivato nella forma più drastica e traumatica, il prelievo dei minori. Una misura estrema che dovrebbe essere l’ultima risorsa, non la prima. E stupisce che, in un Paese che rivendica a ogni occasione il valore della famiglia, si sia scelta la via più violenta nel nome della sua presunta protezione.
L’aiuto che arriva dai cittadini, non dalle istituzioni
Il segnale più amaro arriva da Napoli, da un imprenditore che, restando anonimo, ha deciso di pagare tutto, spese legali, avvocati, strategie difensive. Un privato, non lo Stato. Un cittadino qualunque che, di fronte all’immobilismo istituzionale, ha scelto di intervenire per riparare le conseguenze di una decisione che rischia di compromettere irrimediabilmente la vita di tre bambini. È un gesto di grande generosità, ma anche una denuncia implicita. Perché l’aiuto arriva da un privato e non da chi dovrebbe garantire supporto sociale, educativo, economico?
Le domande che restano senza risposta
Se davvero, come afferma l’ordinanza, la mancanza di socialità era un rischio, perché lo Stato non ha portato la socialità a quella famiglia? Perché non è stato previsto un progetto educativo personalizzato? Perché non è stato attivato un sostegno abitativo transitorio? Le alternative esistono. La volontà politica di perseguirle, molto meno.
La guerra tra poteri sul corpo dei bambini
Lo scontro istituzionale tra governo e magistratura rischia ora di trasformare questa vicenda in terreno di propaganda. Salvini parla di “sequestro”, l’ANM denuncia la “strumentalizzazione del caso”. Ma al centro, stretti tra due apparati che si accusano a vicenda, restano tre bambini costretti a vivere un trauma che nessuna riforma e nessun titolo di giornale potrà cancellare.
Se la legge è sbagliata, si cambi
Se c’è un problema normativo, e forse c’è, allora lo si affronti con coraggio, si cambi la legge. Si rinforzino i sistemi di sostegno alle famiglie non convenzionali. Si creino protocolli che privilegino l’aiuto, non la punizione. Perché vivere in un bosco non è un reato. La povertà non è un reato. La scelta di un’esistenza alternativa non è un reato. E non può diventare il pretesto per un intervento che separa, ferisce, distrugge.
Una società che punisce la diversità tradisce sé stessa
In un Paese che si proclama difensore dei valori tradizionali, la contraddizione è lampante, la famiglia, invece di essere accompagnata, viene trattata come una deviazione da correggere. Ma una società che non sa accogliere la diversità, anche quando scomoda, anche quando imperfetta, finisce per tradire sé stessa.
Aiutare una famiglia non significa imporle uno standard di vita, bensì offrirle gli strumenti per crescere insieme, in sicurezza e dignità. Portare via i figli dovrebbe essere il fallimento estremo del sistema, non il suo automatismo.
E qui, purtroppo, il sistema ha fallito.
