“The Sea”: il film che Israele non voleva

La storia di un ragazzo palestinese che sogna di vedere il mare, diventa specchio delle paure e delle chiusure di un Paese in guerra con la propria coscienza

"The Sea" di Shai Carmeli Pollak

C’è qualcosa di profondamente simbolico nella vicenda di The Sea, il film israeliano candidato agli Oscar 2026: un ragazzo palestinese che sogna di vedere il mare, attraversando confini e posti di blocco, mentre intorno a lui si moltiplicano muri, diffidenze e paure. È una parabola di libertà negata, ma anche un grido di umanità che attraversa un Paese sempre più lacerato tra la sua coscienza civile e le direttive di un governo impenetrabile alla compassione.

Un film “dentro” Israele

Il regista Shai Carmeli-Pollak, attivista pacifista di lunga data, non ha voluto fare un film “contro” Israele, ma dentro Israele. The Sea nasce da una domanda morale, che cosa resta della nostra umanità quando smettiamo di vedere l’altro? La storia di Khaled, il ragazzo palestinese che vuole solo toccare l’acqua del Mediterraneo, è un racconto minimo e universale, ma in un Paese dove l’empatia è diventata sospetta e la pietà un rischio politico, diventa un atto di resistenza.

L’emozione del pubblico, la freddezza del potere

Il pubblico israeliano lo ha capito. L’accoglienza calorosa, le lacrime in sala, i dibattiti nati dopo le proiezioni dimostrano che esiste, sotto la coltre della paura e della propaganda, una parte viva della società israeliana che rifiuta di disumanizzare il prossimo. Nonostante due anni di guerra a Gaza, nonostante l’orrore del 7 ottobre e la spirale di vendetta che ne è seguita, alcuni israeliani riescono ancora a guardare negli occhi la sofferenza palestinese senza sentirsi traditori.

La reazione del governo

Il governo, invece, non ha gradito. Il ministro della Cultura Miki Zohar ha ritirato i fondi alla cerimonia degli Ophir Awards, dove The Sea ha trionfato come miglior film, accusando l’opera di rappresentare in modo “sconveniente” l’esercito israeliano. In un contesto politico dominato dall’estrema destra, dove la parola “pace” è diventata quasi un insulto, la compassione viene trattata come una debolezza e l’arte come un pericolo.

La paura del dialogo

Ma la reazione governativa rivela proprio ciò che il film denuncia, la paura del dialogo, l’incapacità di riconoscere l’umanità dell’altro come parte della propria. The Sea non assolve nessuno, ma mostra la tragedia condivisa di due popoli intrappolati nello stesso spazio, separati da barriere fisiche e mentali. E nel momento in cui un artista osa offrire uno specchio, il potere si affretta a romperlo.

Un Paese sempre più chiuso

Non è un caso che Israele viva oggi uno dei momenti più cupi della sua storia recente. La leadership politica rifiuta ogni prospettiva di Stato palestinese e continua a espandere gli insediamenti in Cisgiordania, mentre la violenza dei coloni si intensifica. In questo clima, un film che invita alla “compassione e all’amore”, come dice il suo regista, appare quasi sovversivo. Ma proprio per questo è necessario.

L’arte come resistenza morale

The Sea non cambierà da solo la politica israeliana, ma ha già scosso qualcosa di più profondo, la percezione collettiva. Ha ricordato che dietro ogni checkpoint c’è una vita, dietro ogni muro un desiderio semplice, quello di vedere il mare, di respirare libertà. E forse è proprio da questi desideri minimi che può rinascere una coscienza civile.

Il mare come orizzonte condiviso

L’arte non può sostituire la diplomazia, ma può restituire l’empatia che la politica ha smarrito. E se un film riesce, anche solo per due ore, a far piangere uno spettatore israeliano per un ragazzo palestinese, allora forse una piccola crepa si è aperta nel muro dell’indifferenza.

Perché il mare, in fondo, non è solo un orizzonte, è la promessa di un futuro in cui israeliani e palestinesi possano finalmente guardarsi senza paura, e scoprire di appartenere alla stessa, fragile, umanità.