Benjamin Netanyahu, eterno sopravvissuto della politica israeliana, si trova ancora una volta in bilico sul filo del potere. Dopo oltre due anni di guerra a Gaza, la tregua mediata da Washington e accettata il 10 ottobre ha momentaneamente silenziato i cannoni, ma ha scatenato una battaglia ben più insidiosa: quella interna alla sua coalizione. Il premier più longevo nella storia di Israele affronta oggi il prezzo politico della pace, ostaggio di una maggioranza ridotta e di alleati che non accettano l’idea stessa di una tregua con Hamas.
La fragile aritmetica della Knesset
Il governo Netanyahu dispone ormai di soli 60 seggi su 120 alla Knesset, dopo il ritiro di un partito ultraortodosso a luglio. La pausa estiva del parlamento ha ritardato l’inevitabile resa dei conti, ma la riapertura dei lavori ha riportato la realtà davanti agli occhi di tutti, la coalizione è un mosaico incrinato, tenuto insieme più dalla paura di nuove elezioni che da una visione comune.
L’estrema destra: fedeltà condizionata e minacce costanti
A destra, l’estremismo di Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich si è trasformato in un’arma di pressione costante. I ministri ultranazionalisti pretendono non solo la ripresa della guerra a Gaza, ma l’annessione della Cisgiordania, il rafforzamento della colonizzazione e leggi punitive come la pena di morte per i “terroristi”. Per loro, la tregua è una resa morale e politica; un insulto alla promessa di una vittoria totale. Non lasciano il governo, ma alzano il prezzo della loro fedeltà, trasformando ogni voto in una prova di forza.
I partiti religiosi e la spina dell’esenzione militare
Sul fronte religioso, Netanyahu è stretto tra due fuochi. Il partito Shas, con i suoi undici deputati, minaccia di ritirare il sostegno se non verrà approvata la legge che conferma l’esenzione dal servizio militare per gli ebrei ultraortodossi. L’altro partito religioso, United Torah Judaism, ha già abbandonato la coalizione. La questione della coscrizione rischia di far crollare quel che resta della fragile impalcatura di governo, aprendo la strada a un voto anticipato che molti osservatori ritengono ormai inevitabile.
Il calcolo del sopravvissuto
Dietro le quinte, Netanyahu, politico di straordinaria resilienza ma anche di cinismo strategico, prepara il terreno per la prossima campagna elettorale. A 76 anni, non ha alcuna intenzione di abbandonare la scena. Secondo indiscrezioni, il suo staff punta a elezioni anticipate nel giugno 2026, o prima se il logoramento della coalizione lo costringerà a sciogliere la Knesset. Il Likud resta in testa ai sondaggi, ma il consenso è fragile, più fondato sull’inerzia e sull’assenza di alternative che su un reale entusiasmo popolare.
Leggi su misura per restare a galla
Nel frattempo, il governo tenta di blindarsi con manovre legislative su misura: abbassare la soglia di sbarramento per salvare i partiti minori della destra religiosa e ridurre l’età di voto a 17 anni, puntando a un bacino elettorale più favorevole. È il segno di una politica in difensiva, che cerca di sopravvivere alterando le regole del gioco invece di affrontare il dissenso.
Una tregua che divide più della guerra
La tregua di Gaza avrebbe potuto essere l’occasione per Israele di riaprire un discorso strategico sul futuro del conflitto, sulla sicurezza e sulla pace. Invece, è diventata il detonatore di una crisi interna. Gli alleati di governo chiedono la distruzione di Gaza, non la sua ricostruzione; la conquista, non la convivenza. E Netanyahu, stretto tra le esigenze degli estremisti e la pressione americana per la stabilità, si ritrova senza margini di manovra.
Il prezzo politico della pace
Israele entra così in una fase di precarietà politica e morale. Il cessate il fuoco ha mostrato che la pace non è soltanto un affare tra nemici, ma anche una frattura tra alleati. E se Netanyahu, ancora una volta, riuscirà a sopravvivere, sarà più per istinto di conservazione che per una visione di futuro. In questo scenario, la vera domanda non è quando si voterà, ma se Israele sarà capace di uscire dal ciclo, politico e militare, della guerra perpetua.
